Diario di un cardiologo in tempo di quarantena

"Un diario per raccontare quello che succede. Ciò che noi operatori sanitari viviamo. Un diario che non ha lo scopo di spaventare: ha lo scopo di informare, di condividere, aiutare"

Sergio Macciò, Consigliere UPO Alumni

Dirigente Medico della divisione di Cardiologia dell'ospedale Sant'Andrea di Vercelli

21 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< È il più vuoto e tuttavia il più pieno di tutti i messaggi umani: “Addio” >>

(Kurt Vonnegut - Scrittore)

ADDII E ARRIVEDERCI

Caro Diario,

questa è la pagina più difficile da scrivere e, mi perdoneranno i lettori, anche la più lunga.

Ho cominciato a visualizzare questa pagina sin da quando ho compreso che il Diario, da qualcosa di personale, era divenuto “corale”.

Il Diario è divenuto qualcosa di vivo nelle settimane e nei mesi.

E come tutte le cose vive ha avuto una nascita.

Il diario è nato il 23 Febbraio 2020.

Da poco in Italia si era capito che non sarebbe stata un’influenza.

Fuori dai nostri Pronto Soccorso nascevano tende per il triage. Il mondo si fermava.

Quella sera scrissi un post che si intitolava “Dottore non capisco, devo avere paura?”.

Era una sorta di lettera aperta per rassicurare in qualche modo, dire che in mezzo alla confusione di quelle ore medici e infermieri si stavano velocemente preparando a gestire la crisi.

In poche ore le visualizzazioni crebbero sino a oltre 250 con 90 condivisioni. Nulla a cui fossi stato abituato prima.

Era un segnale. Chiusi nelle loro case uomini e donne avevano bisogno di parlare, confrontarsi, capire.

Seguì “Quelli CHE … io avrei fatto”.

Poi giunse “Per un filo d’acqua di traverso” e per la prima volta si sorrideva, una battuta e un accenno di scrittura anche evasiva. Molti commenti seguirono. Ebbi la netta sensazione che la gente non voleva solo parlare di COVID in termini tecnici, aveva bisogno di vedere, attraverso gli occhi di chi poteva raccontare, tutta la vita che continuava CON ed A FIANCO del COVID.

Scienza ma anche (e soprattutto) umanità.

La pagina di svolta del Diario fu quella dell’8 Marzo.

Il titolo era “Alla fine è successo”. Raccontava il risveglio in zona rossa.

Ebbe 960 like, 65 commenti e 702 (!) condivisioni. Un blogger professionista sorriderà di fronte a questi numeri per lui modesti, ma per me, medico che raccontavo impressioni personali su una piccola pagina personale, fu uno shock e anche la presa d’atto di una nuova responsabilità: qualcuno la sera si aspettava di leggere il Diario. Bisognava trovare il tempo di scrivere, anche nelle giornate più pesanti e difficili.

Le pagine erano divenute ali.

Il 10 Marzo annunciai l’inizio “ufficiale” del diario.

Nelle due settimane successive il diario crebbe continuamente.

Venne inizialmente ripreso e pubblicato sul sito web di UPO ALUMNI e successivamente anche sulla pagina web della Famiglia Nuaresa.

Cominciò ad essere condiviso anche all’estero ed arrivarono i primi commenti dai 4 continenti (come ho raccontato nella pagina del 20 Aprile intitolata “i gradi di separazione”).

Il diario attirò attenzioni.

Il giornalista Matteo Gardelli ci onorò di una splendida intervista su La Sesia dedicata al Diario e alla sua Compagnia che nasceva proprio quel giorno.

Era il 3 Aprile, la pagina si intitolava “La Compagnia del Diario”. Nasceva la sensazione di essere un gruppo, un condominio virtuale che si ritrovava a discutere e a condividere.

Il Diario ha visto nelle settimane pagine tecniche come quelle dedicate alle maschere ed alle terapie.

Abbiamo navigato insieme tra i mari in tempesta delle “bufale” e dei falsi scoop.

Abbiamo imparato insieme come anche la nostra tanto declamata scienza occidentale non abbia una risposta a tutto e per tutti.

Abbiamo riscoperto i limiti ma anche la forza del metodo scientifico. Il saper attendere, il non aspettarsi miracoli, ma anche la forza di centinaia, migliaia di ricercatori in tutto il mondo che provano, tentano, sbagliano, si correggono, esultano e si disperano.

Abbiamo compreso insieme come non sempre le “star” della medicina televisiva sono depositari della scienza esatta o di verità assolute.

Il diario ci ha portato anche pagine più emozionali. Racconti e piccoli quadri. Il bianco ed il nero. I colori dell’arcobaleno, le notti di guardia.

Abbiamo ospitato nel nostro condominio testimonianze di chi ha visto il COVID con occhi diversi.

Siamo saliti sull’ambulanza che correva a soccorrere un paziente COVID, abbiamo vissuto il Pronto Soccorso con gli occhi di una paziente, abbiamo condiviso le emozioni dell’incontro tra due donne, un medico e una paziente, abbiamo visto la Milano deserta con l’occhio della fotocamera di un grande fotografo, abbiamo letto la testimonianza di una madre lavoratrice.

Sono stati mesi indimenticabili per tutti noi. Il crollo delle certezze ha portato purtroppo dolore, smarrimento, perdite. Ma ha anche portato, credo, una percezione differente di ciò che da questa vita ci attendiamo. Forse qualcuno seguirà nuovi percorsi, aprirà cassetti chiusi, realizzerà qualche sogno, uscirà dai binari per scoprire sentieri inesplorati.

Ed un giorno racconteremo tutto questo a chi non lo ha vissuto. Il racconto dell’anno in cui il mondo si fermò. Lo abbiamo raccontato anche noi in una pagina che porto nel cuore.

Era il 24 Marzo e il titolo “LETTERA A ITALO, NATO (immaginario) dell’anno 2020”.

In quella lettera l’eredità che il diario lascia, nel suo piccolo, alle generazioni future.

Ma nulla è eterno.

Siamo nella seconda metà di maggio.

Siamo in Fase 2, si esce di casa, possiamo cominciare con tutte le cautele a incontrarci. A giugno dovrebbe aprire definitivamente la ristorazione. Il presidente del consiglio parla di vacanze al mare seppur con riguardi e attenzioni.

La vita riparte e il diario, nato per “creare ponti tra isole” in tempi di clausura, cessa la sua missione. Torneremo, con calma e attenzione si spera, a intrecciare rapporti umani diretti.

Il Diario ci saluta qui dopo aver presentato lo splendido progetto UPOAlumni e Lupo Bianco "Il tuo sogno continua".

Vorrebbe salutare per nome ognuno di voi; tutti quelli che lo hanno accompagnato, tutti quelli che lo hanno letto e poi col tempo hanno cominciato a scrivere. Chi solo per un saluto, chi per uno sfogo, chi per raccontare un’emozione, chi ha scritto commenti lunghi e articolati. Sono troppi nomi e correrei il rischio di far torto a qualcuno. Ma io e il Diario li ricordiamo tutti. Sono parte del diario.

Chiudiamo il diario, riprendiamo i fili interrotti della nostra vita precedente.

Usciamo, corriamo, sperando di aver imparato qualcosa alla fine. Perché nostra forza è forse anche quella di imparare dalle sconfitte per ripartire più forti di prima. Lo ha sempre fatto, nella sua lunga storia, questo strano bipede che chiamiamo uomo.

Buon “nuovo” 2020 a tutti.

21 di Maggio …. Mai fu la nostra vita così piena di incontri, di arrivederci, di transiti (Rainer Maria Rilke - scrittore) …

N.d.R.:

La Compagnia del Diario non si scioglie con il Diario.

Per chi vuole oggi apre il gruppo facebook “Compagnia del Diario” Link:

https://www.facebook.com/groups/diario.corona/

Sarà un luogo di confronto, discussione, condivisione sul mondo COVID che resterà aperto sino a quando non chiuderemo definitivamente questa crisi e quando il virus uscirà dalle nostre vite. Un luogo aperto al contributo di tutti senza pregiudiziali con l’unica regola del rispetto reciproco.


20 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Una buona madre vale cento maestri >> (Victor Hugo)

TESTIMONIANZE

Caro Diario,

L’altro giorno una tua lettrice, Pasqualina Pesare, mi ha scritto, o meglio ci ha scritto.

È una professionista (peraltro una ALUMNA UPO!) ed è anche una madre.

Ci racconta una testimonianza preziosa che si aggiunge a quelle che abbiamo già ospitato su queste pagine.

Una testimonianza che avrebbe meritato il “palcoscenico” del giorno della Festa della Mamma. La ospitiamo oggi.

<< Mio figlio Mario ha quasi 7 anni, prima elementare, a casa dal 24 febbraio... Fortunatamente io in smart working dallo stesso giorno (mio marito due settimane dopo me).

Vorrei raccontare l'esperienza di questi giorni, vissuta da noi genitori e da mio figlio, quindi due punti di vista diversi.

Mario, dopo una iniziale fase di gioia “evvai, evviva, non si va a scuola!” ha goduto di tanto tempo libero fatto di gioco, TV, libri e i suoi amati Lego.

La scuola è stata 'presente', i compiti sono arrivati prima in modo più occasionale, poi più programmato su strumenti informatici differenti, fino a martedì scorso, quando Mario ha frequentato la sua prima lezione online con due maestre e metà dei compagni di classe.

Fino a quel momento c'erano stati incontri online il sabato pomeriggio, un momento di incontro libero e spontaneo tra maestre e bambini.

Mario in questo periodo non ha mai dato segni di irritazione o sconforto, non mi ha mai detto “vorrei uscire” o “mi mancano gli amici / la scuola”; solo 15 giorni fa mi ha detto, quasi piangendo, che gli mancava la piscina il sabato mattina (che manca molto anche a me!).

Martedì però è successo qualcosa durante la lezione, è tornato a scuola. Era emozionato, attento, osservante delle regole per interagire, in ascolto, partecipe. Era a scuola!

Così nel pomeriggio mi ha finalmente detto che oltre alla piscina gli mancano gli amici, i compagni, le maestre e la scuola. Era triste, sconfortato. Abbiamo parlato.

In tutto questo periodo di lavoro in smart working (una grande fortuna, una grande attenzione da parte dell'azienda, che ringrazio) per noi adulti tanto impegno su tutti fronti:

- emotivo, nel seguire l'evoluzione dell'epidemia, il dolore per i decessi, la paura del contagio, l'assenza di una cura

- familiare, nel gestire l'intera giornata tra lavoro, pranzi, cene, pulizie, spesa, compiti, etc

- lavorativo, con difficoltà per reti internet sovraccariche e server KO, per la presenza costante della famiglia intorno, ambienti trasformati in uffici, tolti alle abitudini anche di Mario, ma cercando di rendere sempre al massimo

- relazionale, per l'assenza di contatto e vicinanza con i propri cari e amici.

Da questa situazione storica, dalla quale non siamo affatto usciti, a dispetto delle misure allargate che porteranno inevitabilmente il virus a circolare (e speriamo a non farci vivere una seconda ondata di infezioni), vorrei però portare con me alcune cose:

- il tempo trascorso con Mario, l'ho visto cambiare ogni giorno, in una fase speciale della crescita fisica e intellettuale; in condizioni normali mai avrei trascorso tanto tempo con lui, mai avrei goduto dei suoi occhi, abbracci, sorrisi, baci, scherzi, giochi, dei suoi “mamma, ti amo”

- l'ho visto a scuola, ho visto come si comporta, la sua curiosità nell'imparare e nel partecipare; è stata un'emozione forte anche per me martedì

- la resistenza ad uno stress forte e anomalo, perché vissuto interamente tra le mura di casa, tra lavoro e famiglia, altra forma di vita

- gli affetti, quelli veri, sono rimasti vivi

- da quanto visto, letto, appreso e rielaborato tra TV, giornali e social, la conferma dell'idea del tutto personale che il vero virus siamo noi e che l'umanità ha ancora molta strada da fare e molto da imparare per definirsi 'umanità'. >>

Grazie Pasqualina per la splendida testimonianza!

20 di Maggio… Domani ultima pagina del diario, ma ogni fine può essere un nuovo inizio…


19 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Per realizzare grandi cose, non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo progettare ma anche credere >> (Anatole France – Nobel letteratura)

INVESTIRE SUL FUTURO

(Parte 2: Il progetto “Il Tuo Sogno Continua”)

Caro Diario, ieri abbiamo concluso la pagina con un interrogativo: chi è il sostenitore/finanziatore che supporta UPO ALUMNI? E quale il progetto?

Oggi possiamo aprire il sipario.

Questo pomeriggio infatti una conferenza Stampa dedicata ha ufficializzato il progetto e dunque anche il nostro piccolo Diario può finalmente parlarne.

Ed è ora di presentare il secondo protagonista della storia di oggi (che affianca UPO ALUMNI): il Lupo Bianco, Carlo Olmo.

IL LUPO BIANCO.

Il Lupo Bianco è il simbolo, in questa crisi, della solidarietà, dell’aiuto, dell’intraprendenza, della vicinanza. Lanciato dal Maestro Carlo Olmo che ne ha fatto un vessillo di pace in tempi di guerra, il Lupo Bianco è uscito da tempo dai confini vercellesi. Le sue opere di beneficienza (quasi integralmente finanziate dal Maestro Olmo in prima persona) hanno valicato prima i confini cittadini, poi quelli provinciali, infine quelli regionali. Il Lupo Bianco è giunto con il suo supporto sino alla martoriata Bergamo. In quell’occasione a fianco di Olmo, per testimoniare con le foto il viaggio, le donazioni e la Bergamo del COVID ci fu un compagno di viaggio d’eccezione che il nostro diario si onora di aver ospitato: Andrea Cherchi.

Carlo Olmo ha donato dall’inizio della crisi DPI (Dispositivi di Protezione Individuali) che sono stati ossigeno per il personale sanitario quando dalle fonti “istituzionali” poco giungeva e con il contagocce. Migliaia di maschere, visori, tute, guanti. Il personale sanitario del Vercellese sarà per sempre grato al Lupo Bianco Maestro Olmo.

Ma il Lupo Bianco è andato oltre.

Quando la pressione sui sanitari si è allentata ha voltato lo sguardo verso quella parte della popolazione che, causa COVID, aveva perso lavoro, guadagni, sostentamento. È iniziata così una campagna di solidarietà che ha visto sotto la guida di Olmo la partecipazione di molti volontari e donatori permettendo la distribuzione di generi alimentari grazie ad una rete di negozianti che si è resa disponibile.

<< IL TUO SOGNO CONTINUA>>

Ora UPO ALUMNI e il LUPO BIANCO si sono messi insieme, attorno ad un tavolo virtuale (all’epoca del COVID tutto avviene in Call Conference) e hanno unito le forze. UPO ALUMNI ha messo sul tavolo la sua organizzazione e il filo diretto con l’Università, il LUPO BIANCO (Carlo Olmo) ha messo i fondi perché un sogno possa avverarsi.

Quale sogno?

Abbiamo mostrato come Carlo Olmo sia stato sin dall’inizio a fianco del personale sanitario. Lo ha aiutato e supportato con strumenti e dispositivi di protezione. Oggi fa di più. Con una importante e cospicua donazione (60.000 euro) consentirà a studenti UPO (inizialmente della Facoltà di Medicina e delle Professioni Sanitarie) che, causa crisi economica, avrebbero corso il rischio di abbandonare gli studi per l’impossibilità di pagare la retta, di proseguire il loro percorso e di laurearsi. Uno sguardo verso il futuro.

Gli studenti verranno individuati secondo un bando che avrà criteri assolutamente oggettivi (meritocratici ed economici) all’insegna della massima trasparenza che ha sempre contraddistinto UPO ALUMNI e l’attività del LUPO BIANCO.

Nella giornata di oggi il progetto è stato oggetto di una conferenza stampa coordinata dall’UPO (Università Piemonte Orientale) grazie al prezioso coordinamento di Paolo Pomati e la collaborazione di Rita Francios.

E non posso non ringraziare di due “presidenti”: il Magnifico Rettore prof. Giancarlo Avanzi e la dott.ssa Francesca Boccafoschi presidente di UPOALUMNI.

Questo progetto è solo un inizio. Sono le fondamenta sulle quali costruire una casa ancora più grande. Cercheremo sull’esempio di Olmo e del suo progetto di andare avanti, trovare altri partner che contribuiscano a costruire altri piani del nostro edificio e raggiungere una platea sempre più vasta di studenti e famiglie.

Investiamo sulle generazioni future, sui professionisti che dovranno far ripartire questo paese, ripensarlo, progettarlo.

A tutti i laureati UPO che il nostro diario sta raggiungendo dico <<Unitevi al nostro gruppo, entrate nella famiglia UPO ALUMNI, abbiamo idee, progetti ma abbiamo bisogno di voi, del vostro cuore e delle vostre idee. Possiamo diventare una grande “rete” anche al servizio della comunità>>.

Questo è per me lo spartiacque che attendevo.

Il Diario trova in questo annuncio la fine del suo percorso di vita. Lo trova come testimone diretto della ripartenza.

Domani un’ultima pagina dedicata ad una bella e toccante testimonianza, le emozioni ed il vissuto di una mamma lavoratrice al tempo del COVID. Il 21 vi sarà una pagina di saluto, ringraziamento e commiato dalla quale, vedrete, nascerà qualcosa d’altro.

19 di Maggio… Non sforzarti di seguire le orme dei maestri: cerca ciò che essi cercavano… (Mazu Daoyi – maestro zen cinese VII secolo d.C.)


18 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< L’investitore è colui che crede in un domani migliore >> (Benjamin Graham - economista)

INVESTIRE SUL FUTURO: (Parte 1: lavori in corso)

Caro Diario,

Due pagine speciali oggi e domani.

Da qualche giorno ne ho accennato in altri post. Eccoci qui.

Sono pagine che precedono la vicina chiusura (del Diario ma non della Compagnia del Diario).

Pagine di speranza, progettualità, vicinanza e aiuto.

Voglio raccontare una storia di quelle belle, solari, fresche come le prime fragole primaverili.

Una storia che parla di solidarietà, di crisi e di rinascita.

Una storia che guarda oltre l’ostacolo per costruire il futuro.

Per raccontare questa storia oggi devo introdurre uno dei protagonisti: UPO ALUMNI

UPO ALUMNI.

È l’associazione che riunisce idealmente i Laureati dell’Università del Piemonte Orientale.

Nacque ufficialmente nei primi giorni del Settembre 2018 con l’intenzione di riunire tutti coloro che hanno conseguito un titolo presso l'UPO (lauree, master, corsi di specializzazione) o che hanno prestato servizio in qualità di Docenti. Tra i principali obiettivi che si pone, UPO Alumni mira a creare una solida rete ed a offrire servizi per aiutare i neolaureati ad inserirsi nel mondo del lavoro oltre a fornire altri servizi di supporto sia didattico che culturale.

Da giugno 2019 mi onoro di essere membro del direttivo dell’associazione (guidata con maestria dalla Presidente dott.ssa Francesca Boccafoschi e dal vice-presidente Prof. Giorgio Bellomo.

Nel corso di questo anno l’Associazione avrebbe dovuto promuovere ed organizzare convegni e seminari scientifici, poi il COVID ha bloccato tutto. Eravamo pronti, progetti concreti e tanto lavoro.

Come tanti altri abbiamo dovuto accantonare mesi di lavoro, contatti, accordi.

Abbiamo vissuto, come tutti, il momento della confusione, dello scoramento.

Poi si reagisce.

Se era vero, ed è vero, che la nostra associazione nasce per fare rete allora vien da sé che proprio in momenti di crisi come questa serve una rete. Una rete di protezione.

Una rete per chi non riesce ad andare avanti.

Una rete per chi ha perso tutto o quasi in questa crisi.

UPO ALUMNI non si è fermata, ha iniziato a costruire quella rete.

Per fare progetti ci vogliono idee, organizzazione e fondi.

UPO ALUMNI ha messo idee, organizzazione e struttura.

E l’idea, buona, c’era. Bisognava trovare un partner disposto a investire in quell’idea, un partner sincero, trasparente, onesto che potesse gettare le fondamenta di una grande costruzione.

E lo abbiamo trovato.

Ne parliamo domani in una delle ultime pagine del diario.

Una pagina dedicata a guardare oltre l’ostacolo e alla ripartenza nonché al mutuo soccorso.

18 di Maggio... Lavori in corso…


17 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< La mente umana è come un paracadute: funziona solo quando si apre. >> (Albert Einstein)

CADUTA LIBERA

Cerchiamo di tenere gli occhi aperti.

Le palpebre si sono fatte di colpo pesanti, grevi come fossero piombo.

Già è difficile mantenere in linea il collo, figurarsi mantenere l’assetto.

Intravediamo chiazze di azzurro, verde, forse giallo ma una foschia vela quel poco di luce che riesce a giungere le nostre pupille.

Lame d’aria gelida trafiggono le mani tese nel vuoto.

I vestiti appiccicati come una seconda pelle.

Manca anche il respiro.

C’è sin troppa aria attorno a noi. Troppo veloce. Inspiriamo e sembra che l’aria voglia prendere una strada diversa da quella delle nostre vie aeree. Come quando da bambini si metteva la testa fuori dal finestrino con l’auto in corsa. Sopra una certa velocità era sorprendente verificare ogni volta come non si riuscisse a respirare, quasi l’aria venisse strappata via da mani invisibili.

Qui non siamo in corsa seduti comodi sul sedile di un’auto.

Le cose sono andate diversamente.

Prima di trovarci qui, ora, in balia delle correnti ad osservare chiazze di colore che si avvicinano sempre di più eravamo in piedi. Fuori dall’oblò dell’aereo osservavamo il mare a quadretti della pianura di casa. Il volo era stato un volo lungo, faticoso, incerto.

L’aereo era decollato a fine febbraio.

Un virus aveva invaso la Terra e l’unica salvezza era stato alzarsi in volo. L’aereo, come tanti altri, decollati in tutto il mondo quasi contemporaneamente, veniva rifornito in volo. 3 mesi. Sotto di noi catene montuose, laghi, mari, i colori grigio-marroni degli insediamenti umani, deserti.

Era la Fase 1. Isolamento, sospensione, un “volo” sospesi sulla Terra.

Poi un giorno suona una sirena, una luce rossa alternante precede di poco l’apertura, quasi a sorpresa, di un portellone.

<< Fase 2>> gracchia una voce all’altoparlante << Fase 2>>.

Una spinta dietro la schiena ed un attimo dopo il vuoto sotto i piedi.

È la caduta libera.

Ed eccoci qui, in balia dell’aria e della forza di gravità.

Perché al momento del lancio della Fase 2 ci siamo scordati qualcosa.

Qualcosa cui abbiamo avuto 3 mesi di tempo per pensare, progettare, preparare: il paracadute.

E se poteva essere giustificabile 3 mesi fa l’impreparazione, il decollo rapido, la rotta da pensare strada facendo, ora, dopo 3 mesi, ci aspettavamo una Fase 2 più ragionata.

Così non è.

Ci stiamo lanciando senza paracadute.

Hanno aperto il portellone ma non erano chiare le idee su come gestire il ritorno a terra.

Questa crisi ci ha messo, come uomini, professionisti e istituzioni di fronte ai nostri limiti.

Perchè fatichiamo ancora a trovare il bandolo della matassa, a trovare il modo ordinato e chiaro di gestire un rientro alla normalità.

Siamo in caduta libera.

In fondo, oltre alla foschia delle nuvole, la terra, l’acqua, le piante. La nostra normalità.

Per assurdo quasi si rimpiange la Fase 1. Lì almeno le cose erano chiare. In volo, blindati, tutto era Bianco & Nero, il mondo di divideva in Terra e Cielo, in “COVID” e “NON COVID”. Scelte chiare. Limpide.

Ora. Mentre veloci sfrecciamo nell’aria, il bianco e nero hanno lasciato il campo a infinite sfumature di grigio. Ora abbiamo i “COVID”, i “NON COVID”, i “FORSE COVID”, i “NON COVID MA SEMBRA”, i “COVID MA NON SEMBRA”.

In ospedale riuscire a far convivere le diverse entità, separare spazi e persone si sta rivelando complesso, e non potevamo non attendercelo. Certo non aiutano strutture obsolete e fuori dal tempo. Decenni di mancati investimenti in edilizia sanitaria. Oggi ricostruire tutto, in poco tempo, interi ospedali da riprogettare, sarebbe difficile anche per gli efficientissimi cinesi.

Così eccoci in caduta libera.

La FASE 2 non sarà una passeggiata.

Attenzione: non voglio dire che le cose vadano peggio.

Al contrario: le cose per noi dentro stanno diventando molto più difficili proprio perché fuori vanno meglio.

E se fuori vanno meglio in ospedale cominciano ad affluire nuovamente tutte le altre patologie da trattare. Pazienti “NON COVID” cui dobbiamo garantire isolamento e protezione da quelli “COVID”.

Siamo ancora in tempo per aprire il paracadute, l’unico modo per rallentare la caduta.

Il nostro paracadute è la collaborazione, la reciproca protezione.

Quando hanno aperto il portellone e siamo “saltati” qualcosa è mancato. Qualcuno ha confuso il volo con la libertà assoluta e con una errata percezione di fine crisi.

La crisi COVID non è finita ma siamo riusciti a ridurne l’impatto, a trattare precocemente, a isolare un po’ meglio di come si faceva all’inizio. Per questo le cose vanno meglio.

Aria nei capelli. La caduta continua, teniamoci per mano.

17 di Maggio... Le cose vanno MEGLIO fuori, per questo saranno DIFFICILI dentro (cit. Diario di Bordo del Corona)…


16 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato>> (Albert Einstein)

DIAMO I NUMERI

Una delle immagini che porterò con me di questi mesi, volente o nolente, è quella della prima pagina del Corriere della Sera.

Da mesi sia l’edizione online che quella cartacea presentano, giornalmente, grafici colorati, a colonne oppure curvi, colori sgargianti. Arcobaleni di carta.

Sono i numeri del COVID.

E di numeri ne abbiamo dati tanti, troppi, spesso sbagliati.

E mentre la popolazione (ed è comprensibile) si è sempre più concentrata sui quei numeri, per noi “esperti” sul campo era sempre più chiaro, giorno dopo giorno, quanto quei numeri non fossero una rappresentazione reale del problema.

Quei numeri, quelle curve che salivano e che solo ora, timidamente, cominciano a scendere, hanno turbato i sonni di molti.

Se è vero che il nostro piccolo diario è stato d’aiuto per superare le nebbie di questo periodo, penso sia giunto il momento di affrontare, tutti insieme, il problema dei numeri.

Cercando di spiegare cose complesse in modo semplice.

Cercando di far comprendere che, piuttosto di andare a caccia di grafici e tabelle, conviene uscire all’aperto ora che è possibile e prendere una bella boccata d’aria fresca.

Ecco allora qualche piccola istruzione per l’uso se proprio vogliamo leggere quei numeri.

I TITOLI

I giornali devono attirare lettori. Un titolo deve catturare l’attenzione in pochi secondi. È così e così sarà sempre. A noi lettori il compito di non fermarci mai davanti ai titoli. Un titolo che afferma “oggi morti X pazienti” può fuorviare e spaventare ma se proseguiamo nella lettura dell’articolo possiamo scoprire che X pazienti non sono morti quel giorno, sono stati “contati” quel giorno. È diverso, molto diverso. Potremmo recuperare qualche ora di sonno se non ci fermassimo al titolo.

DECESSI “PER” o “CON” COVID?

Quando stabiliamo e chi decide se una persona è morta a “CAUSA” del COVID o “ANCHE” per il COVID avendo altre patologie che hanno contribuito al decesso? Ha senso confrontare le mortalità tra nazioni se nemmeno in Europa abbiamo un protocollo comune per la codifica dei decessi? È come voler confrontare mele con pere. Ed a volte è anche molto difficile distinguere chi è morto CON e chi PER COVID. Per questo noi sanitari abbiamo cominciato nelle settimane a dar meno peso ai numeri snocciolati dalla Protezione Civile come verità assolute e dogmatiche. Non si è spiegato che quei numeri avevano una larga imprecisione, una “forbice” come quella degli Exit-pool alle elezioni.

LA MORTALITA’

Si è detto e scritto tantissimo riguardo la mortalità da COVID. Ma come si calcola la mortalità di una malattia? È una semplice frazione. Al denominatore il numero di tutti i contagiati, al numeratore i decessi “PER” quella malattia. Semplice? No, nella realtà quasi impossibile.

Da mesi diamo dati di mortalità calcolati con un numeratore dubbio (abbiamo visto come è difficile stabilire a volte chi è morto “PER” COVID) ed un denominatore ampiamente sottovalutato. Perché per conoscere il vero denominatore dovremmo conoscere tutti i contagiati, anche chi ha avuto una sintomatologia tanto leggera da essere passato inosservata. E con i problemi enormi di tamponi disponibili ed i primi mesi che hanno visto un “tamponamento” assolutamente insufficiente della popolazione, abbiamo sottostimato (tanto!) quel numero. Cosa ne deriva? Che la vera mortalità del COVID è sicuramente più bassa di quello che oggi risulta.

LA MORALE

Quei grafici, titoli, arcobaleni sono graficamente belli e accattivanti. Sono fiori sgargianti che ci attirano come api al polline.

Ma impariamo a non dare loro troppo peso. Dedichiamoci a letture più costruttive.

I numeri “veri”, se va bene, li avremo forse a fine anno quando potremo veramente tirare le fila di questo anno drammatico e capire la reale entità di quello che abbiamo affrontato.

16 di Maggio... Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media normale (Charles Bukowski – scrittore)...


15 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Per un corridore il momento più esaltante non è quando si taglia il traguardo da vincitori. È invece quello della decisione, di quando si decide di scattare, di quando si decide di andare avanti e continuare anche se il traguardo è lontano >> (Fausto Coppi)

LA PAURA DEL TRAGUARDO

Era il 20 Marzo.

L’immagine a corredo del POST mostrava la curva di un circuito di atletica.

Raccontavamo della corsa contro il COVID, le curve oltre le quali si sperava di vedere il traguardo che invece sfuggiva alla cattura.

Quasi 2 mesi da allora.

Da pochi giorni abbiamo svoltato l’ennesima curva e all’improvviso, in fondo al rettilineo c’è lui.

Agognato, sperato, quasi illusorio: il traguardo.

È la piena attivazione della Fase 2.

Dopo 3 mesi di chiusura, ansie, preoccupazioni, all’improvviso la luce.

Tanta luce.

Troppa?

Provate a immaginare un lungo sonno.

Un letargo di mesi. Poi un giorno un raggio di sole, netto e preciso, attraversa la grotta. In quell’istante aprite le palpebre. Luce.

La pupilla non è pronta, troppo “aperta”. La luce fa male.

Chiudete gli occhi e solo la loro lenta e progressiva riapertura vi consentirà di poter riabbracciare, idealmente, la luce del giorno.

Non è successo così a molti di noi?

Dopo mesi di chiusura una mattina ci siamo svegliati ed eravamo liberi (quasi).

Quel senso inebriante di libertà, il traguardo a portata di mano non è stato da tutti vissuto allo stesso modo.

Se da una parte c’è stato chi, euforico e galvanizzato, ha lanciato il cuore oltre il traguardo e ha fatto di corsa gli ultimi metri senza risparmiarsi, dall’altra c’è stato chi, alla vista della linea di traguardo, ha frenato di colpo, si è fermato, in mezzo alla pista.

Ansimante si è voltato.

Alle spalle chilometri percorsi, davanti il premio.

Perché fermarsi allora?

La chiamano “paura di vincere”.

Perché vincere, tagliare quel traguardo, vuol dire dover cambiare di nuovo routine.

Altri la chiamano la sindrome della “Capanna”.

Chiusi tra le nostre mura domestiche abbiamo scoperto il “calore” della casa, la nostra grotta.

Ci ha offerto protezione, i nostri ritmi sono tornati più “umani”. Saltate riunioni, impegni, scadenze.

Abbiamo aperto libri, scritto libri, ripreso hobby abbandonati da anni.

Ora svoltiamo una curva e all’improvviso ci dicono << forza, si ricomincia>>.

Dobbiamo abbandonare la grotta, uscire alla luce. Riabituare gli occhi.

Prima del COVID l’ambulatorio cardiologico al mattino ricordava i bazar turchi. Un frenetico va e vieni. Visite, ecocardio, test ergometrici, Holter, urgenze che si sovrapponevano.

Poi il COVID ha svuotato tutto. Silenzi, sedie vuote, una calma irreale.

Pochi pazienti distanziati, tempi allungati.

Ora bisogna ripartire.

Ma non si può tornare indietro al bazar.

Forse quello è un mondo che non rivedremo. Perché il corona ha cambiato il nostro modo di vedere l’ospedale e non solo.

Siamo entrati in letargo a marzo salutando un mondo noto, con regole consolidate.

Ci siamo svegliati a metà maggio. Siamo usciti dalla grotta e ci siamo ritrovati in un mondo diverso.

Impareremo nuove regole di convivenza.

Niente Bazar. Dovremo imparare (noi italiani popolo creativo e da sempre un po’ anarchico) ad essere consapevoli e rispettosi delle regole. Un cambio epocale.

Ma tagliamolo quel traguardo! Nessuno resti fermo, nessuno resti indietro. E se non vogliamo lasciare nessuno indietro dovremo riscoprire il valore della solidarietà. Qualcuno arrivato sfinito a pochi metri dalla linea finale non riuscirà ad attraversarla con le sue forze. Va preso sottobraccio e accompagnato.

Di questo parleremo lunedì e soprattutto martedì prossimo.

15 di Maggio… Ogni traguardo superato è l’inizio di una nuova gara...


14 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti>> (Luigi Pirandello)

SENZA MASCHERE

Caro diario,

ieri nei commenti una cara lettrice della compagnia del diario, Donatella Petrucci, ha scritto una frase illuminante.

Una di quelle frasi che in poche parole celano un’infinita profondità.

<< intanto il diario ci ha dato l’opportunità preziosa di vedere un uomo senza maschere pur costretto ad indossarne una>>.

Invidia ho provato alla prima lettura: avrei voluta scriverla io una frase così bella.

Alla seconda lettura mi sono immerso in quella frase.

C’è tutto il COVID in quelle parole.

C’è la storia di un’umanità smarrita di fronte al crollo delle certezze.

Quante maschere abbiamo messo in questi mesi?

Abbiamo visto le maschere di chi ostentava sicurezza e presunta autorevolezza.

Maschere dietro le quali spesso si nascondeva invece imprecisione, trascuratezza e impreparazione

Abbiamo visto le maschere di alcune istituzioni.

Dietro ai proclami di battaglia molta improvvisazione.

Le maschere le abbiamo messe dentro gli ospedali.

Non le maschere di stoffa, tessuto, plastica.

Parlo di maschere più invisibili.

Quelle che ti servono per filtrare il dolore che ti circonda.

Quelle che servivano per affrontare le prime 2-3 settimane in cui i ricoveri arrivavano ad ondate, anche 10 persone per volta.

Le indossavano, invisibili, medici e infermieri DEA. Le indossavano medici e infermieri della rianimazione e delle malattie infettive.

Perché quelle maschere invisibili servivano alla sera, una volta tolte, a non portare a casa paure e angosce. Perché a casa c’erano figli, mariti, mogli, genitori che si cercava di tenere lontano da tutto quello.

E anche perché è difficile mostrare il proprio lato debole.

Poteva sfuggire una lacrima dietro un angolo di un muro o dietro ad una cartella aperta dopo aver parlato al telefono con parenti che non potevano vedere il loro congiunto in gravi condizioni. Ci si soffiava il naso dando la colpa alla solita allergia e si ripartiva. Gli occhi lucidi erano colpa ora di un granello di polvere ora di una congiuntivite (sempre allergica, che a nessuno venisse in mente che potesse essere un segno di COVID).

Quelle maschere nei giorni si attaccavano sempre più alla pelle.

Ha ragione Donatella, scrivere il diario è stato togliere quella maschera, quasi strapparla e mostrare, senza filtri, non solo UN volto nudo, ma attraverso di esso centinaia di volti simili.

Senza angoli o cartelle e senza presunte allergie dietro cui nascondersi.

Non era facile. È stato facile grazie alla compagnia del diario.

Quella maschera l’abbiamo tolta pian piano tutti insieme.

Abbiamo trasformato l’incertezza in desiderio di approfondire. Abbiamo trasformato l’isolamento in condivisione.

Ora che il traguardo è ad un passo (domani ne parleremo più approfonditamente) cosa facciamo? Via la maschera?

NO.

Purtroppo.

Non solo resteranno le maschere “fisiche”. Avremo ancora delle maschere con noi e tra di noi. Le avrà l’artigiano, il commerciante, il ristoratore, il parrucchiere. Le avranno tutti quei genitori che scopriranno giorno per giorno come ripartire, a che prezzo, e quelle maschere invisibili che pian piano cominceremo a togliere noi medici e infermieri le cominceranno a mettere loro, a casa, per proteggere i cari dalla paura del futuro.

La comunità che si è stretta all’inizio attorno a medici e infermieri e lo ha fatto con gran cuore, deve ora guardare a loro. A chi non sa come riavviare attività, come affrontare un futuro economico di grandi incertezze.

Lo faremo nel nostro piccolo anche noi e la compagnia sarà testimone, la settimana prossima, di un progetto che getterà fondamenta importanti e che aiuterà qualcuno a potersi togliere quella maschera.

14 di Maggio... C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro, e quando stai solo resti nessuno (Luigi Pirandello)…


13 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Il volto umano non mente mai: è l’unica cartina che segna tutti i territori in cui abbiamo vissuto>>

(Luis Sepúlveda)

SPECCHIARSI NELLA NORMALITA’

Quasi 3 mesi di clausura.

Due mesi e mezzo circa di diario.

Abbiamo attraversato insieme un mare in tempesta.

Abbiamo combattuto.

Chi dentro, chi fuori.

Giorno dopo giorno si avvicina quello in cui il diario cesserà di raccontare. Perché nulla è eterno.

Ma oggi devo fare una confessione. Ho commesso un errore.

È indubbio, però, che a volte anche un errore può essere una colomba che annuncia la terra promessa. E il mio errore di oggi sento di doverlo raccontare.

Giornata di riorganizzazione. La vita comincia a ripartire.

Bisogna riprogettare il presente.

Ripensare spazi, orari, sanificazioni. Un mondo “protetto” da disegnare con attenzione perché non si ripetano vecchi errori.

Cammino su e giù per il corridoio pensando e immaginando come incastrare visite, esami strumentali senza causare assembramenti.

Su e giù per un tempo indefinibile lungo il corridoio che usiamo anche per testare la resistenza allo sforzo dei nostri pazienti. Cammino assorto sino a quando, stanco, decido di entrare in studio medici. Mi avvicino alla scrivania e per caso mi giro verso lo specchio presente sul muro accanto.

Osservo il volto riflesso.

Qualche capello bianco in più rispetto a febbraio? Probabilmente.

Poi osservo il viso solcato dai segni delle tante maschere indossate.

Una sottile linea rossa che da zigomo a zigomo attraversa e scavalca il naso per scendere poi verso il mento.

Ho bisogno di più di qualche secondo, ipnotizzato dall’immagine, per rendermi conto dell’errore, evidente, palese. Impensabile.

NON ho la maschera!

Non ricordo nemmeno da quando! Sono uscito dallo spogliatoio che la indossavo poi ho bevuto il caffè… ecco, è li che travolto dai pensieri non ho rimesso la maschera.

Un brivido scende dalla nuca verso le scapole.

<<Assurdo un errore così>> quasi urlo a me stesso. <<mai avrei pensato di poterlo commettere>>.

<< Avrò incrociato qualcuno? Proprio io… dopo tutto quello che scrivo!>>.

E poi sorrido. E con me sorride il volto riflesso, un sorriso dagli occhi tristi.

Nessuno mi ha visto, perché non c’era nessuno. Tardo pomeriggio.

Oltre a me solo il collega di guardia in quel momento in Unità Coronarica ed alcuni infermieri nell’altra ala del reparto.

Sono così condizionato dall’indossare la mascherina che nemmeno mi ero reso conto di essere completamente solo.

La rimetto subito, comunque.

Perché dopo 3 mesi è dura non associare l’ospedale alla maschera. E francamente non so quando la toglieremo. Penso qui dentro tra molto, molto tempo.

Indubbiamente non tutto sarà come prima.

Intanto oggi sono qui a ripensare, come decine di altri colleghi, il mondo di domani mattina.

Nuove regole, nuovi protocolli.

Con un occhio a progettare la nuova normalità, con l’altro ad osservare e monitorare che non si torni indietro.

Ancora capita, quasi involontariamente, di sbirciare sul software DEA per vedere se sono arrivati nuovi casi.

Notizie buone per ora.

Il volto nello specchio mi fissa ancora. Mi chiede se tutto questo sarà servito a qualcosa.

Se c’è un senso o se non c’è e forse non c’è mai stato.

Intanto oggi sono qui a dirvi che ci stiamo preparando a ripartire. Che l’ospedale non è e non deve essere solo COVID.

Si riparte, tutti insieme.

Ci avviciniamo al momento del commiato dal Diario. A breve, nell'arco di qualche giorno, giungeranno due pagine particolari. Un’ideale chiusura di un percorso. Descriveranno un progetto per contribuire a costruire il futuro, un progetto che guarda oltre l’ostacolo, un progetto nel quale anche il Diario e la sua compagnia hanno avuto un piccolo ruolo.

Ma di questo parliamo nei prossimi giorni perché il volto nello specchio mi ricorda che è ora di stimbrare e tornare a casa.

13 di Maggio... Si sa che non esisto: esistono solo i mille specchi che mi riflettono (Vladimir Nabokov)…


12 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

YIN & YANG

<< La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta >>

(Theodor Adorno – Filosofo tedesco)

Osservavo ieri sera una foto. La foto di un giovane fotografo israeliano (Guy Cohen). Nella foto un bambino corre sullo sfondo di un pavimento in legno sul quale si riflette l’ombra di qualcosa che assomiglia ad un lampione.

Un soggetto apparentemente semplice, banale, reso d’improvviso magico non da qualcosa che c’è, al contrario da qualcosa che manca: i colori.

La fotografia in bianco e nero mi rimanda ad alcuni dei ricordi più belli della mia giovinezza quando, ancora bambino, entravo in camera oscura con mio padre (una camera oscura amatoriale fatta in casa), per sviluppare i rullini in bianco e nero.

Vi era magia in quei momenti.

La stanza buia era illuminata solo da una luce rossa a bassa intensità che proiettava sulle pareti giochi di ombre che potevamo ricordare le visioni oniriche cinematografiche di Georges Méliès.

L’aria permeata dall’odore dei liquidi per lo sviluppo.

Poi la magia. La luce filtrata dalla pellicola incideva il suo segno indelebile sulla carta fotografica.

Ricordo un’altra cosa di quei momenti.

L’istante in cui la luce compiva il suo tragitto era da calcolare, valutare con attenzione. Bisognava stimarne durata, intensità, usare “maschere”.

Perché il problema non erano solo i bianchi (cioè la zona della carta cui non giunge luce) ed i neri (dove la luce colpisce con tutta la sua intensità). Il problema erano i grigi.

È sui grigi che si giocava tutto l’incantesimo.

Quante prove e carte buttate vie per imparare a gestire quei grigi.

A questo pensavo ieri sera osservando quella foto. A questo ed ai grigi della vita.

Perché è umano e comprensibile cercare sempre il bianco e nero.

La via semplice.

Sarebbe desiderio di tutti nella vita essere posti di fronte a bivi in cui sia chiara e netta la scelta di campo da fare. O di qui o di là. Luce o buio. Alto e basso. Piccolo o grande.

E questa necessità di semplificare, di ricondurre le complessità della vita umana a scelte dicotomiche, ci porta spesso a perdere le sfumature.

Questo pensavo ieri osservando la fotografia.

E di questo discutevo con un giornalista qualche settimana fa.

Si dialogava sull’influenza dei social al tempo del COVID.

Ciò che penso è che ormai i social stiano soppiantando l’informazione tradizionale.

In un sempre più diffuso scetticismo verso fonti di informazioni “ufficiali” tacciate spesso di connivenza con poteri forti (veri o presunti che siano), finiamo per cercare rifugio nei post condivisi migliaia di volte sui social.

Ci rifugiamo nella sensazione di far parte di una gloriosa resistenza che in barba all’informazione deviata, contribuisce invece a inoltrare messaggi fondamentali e tenuti nascosti.

Un classico all’epoca dei social che attira sempre migliaia di condivisioni è scrivere qualcosa di sensazionale senza alcun bisogno di documentarlo e terminare con la dicitura “condividete prima che sia oscurato o rimosso”. A quel punto scatta l’istinto “partigiano”. Ognuno di noi si sente coinvolto nel condividere qualcosa che qualcuno vuole nascondere, una sorta di “chiamata alle armi”. E se qualcuno vuole nascondere quel messaggio, pensiamo, è la prova che il messaggio è vero.

In epoca COVID questo succede giornalmente.

Dall’inizio della crisi migliaia di post vengono condivisi ogni giorno su terapie miracolose, previsioni “magiche”, complotti internazionali.

Cerchiamo in queste notizie il bianco e nero.

Cerchiamo il farmaco che da solo curerà il COVID (una chimera!), cerchiamo il virologo che ci dica che da solo, magicamente, il virus tra pochi giorni sparirà. E più quello che leggiamo si avvicina a ciò che nel cuore desidereremmo, più ci aggrappiamo a quel messaggio.

Ma il bianco e nero, non mi stancherò mai di dirlo, nella medicina come nella vita, è qualcosa di rarissimo, quasi introvabile. La medicina non è quasi mai solo Yin o Yang (non se ne abbiano i cultori della medicina tradizionale cinese, vuole essere solo un esempio).

La medicina è fatta di sfumature, tantissime sfumature di grigio.

La medicina reale, quella legata al metodo scientifico che dall’illuminismo ad oggi ha guidato la mano di medici e ricercatori, è fatta raramente di miracoli e quasi sempre di ricerca lunga, faticosa, di strade intraprese che poi si sono rilevate ingannevoli, di rivalutazioni, correzioni di ipotesi. Un lavoro da monaco certosino di correzione continua.

BREVE STORIA DI BIANCHI E NERI ALL’EPOCA DEL COVID

All’inizio fu il Tolicizumab. Era la panacea promessa. Tutti guarivano a detta del centro promotore.

Di li a breve però emerse prepotente sui social un farmaco giapponese “sponsorizzato” da un presunto farmacista romano: l’Avigan. Fummo inondati di post che raccontavano di occultamento evidenze, di inerzia, di case farmaceutiche che lo boicottavano. Ora di questo miracolo annunciato non sappiamo più nulla. E forse nemmeno ne parlano i giapponesi che devono aver guardato con ironia a quanto accadeva in Italia.

Non ne sappiamo più nulla perché sui social fu soppiantato da un altro miracolo. Uno dei post che giravano qualche settimana fa riportava nel titolo “Eparina, la molecola di Dio”. Ovviamente condiviso e ricondiviso migliaia di volte.

Ma l’eparina, ovviamente, non era la molecola di Dio. Era solo una delle tante molecole che si stanno studiano e usando nel trattamento del COVID (ed in determinati pazienti COVID con caratteristiche ben particolari). In quel momento l’eparina era il miracolo, era la molecola boicottata anche lei dai poteri forti.

Poi d’un tratto ci siamo stancati. Quando abbiamo scoperto che nei nostri ospedali si usava regolarmente bisognava cercare altrove per poter accusare gli “uomini in nero” di cospirare contro l’umanità. Ci voleva un altro miracolo “negato”. Un altro bianco da opporre al nero.

È arrivato il plasma, per fortuna. Il nuovo miracolo. Nuovi complotti dietro il suo boicottaggio. Ora è il Plasma la “molecola” di Dio. Almeno sino ad oggi. Perché quando comincerà ad essere usato in modo più diffuso sicuramente andremo a caccia di un altro miracolo, negato.

Se poi saremo in crisi possiamo sempre prendercela con il vaccino (che peraltro neppure esiste al momento) e andiamo sul sicuro. Like garantiti e condivisioni a pioggia. Il vaccino è il nostro “nero” ideale.

Quando leggiamo notizie sul COVID ricordiamoci allora, sempre, delle sfumature di grigio. Dovrebbero anche ricordarlo le eminenze scientifiche di livello nazionale e internazionale che, per passione dei riflettori e delle telecamere, a volte lo dimenticano e vendono per certezze e bianchi&neri delle semplici teorie o opinioni.

Diffidate di chi vi vende stampe senza sfumature. Il buon fotografo, ricercatore, medico, sarà sempre alla ricerca delle sfumature e ve le mostrerà.

12 di Maggio... La verità sta nelle sfumature (Charles Bukowski – poeta e scrittore)…


11 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

QUATTRO CHIACCHERE AL BAR (Virtuale)

3…2…1… … … Via! Si va in onda.

È l’aperitivo (o il caffè) al tempo del COVID.

Due chiacchere con qualche amico ma via Skype, zoom, Google Meet e chi più ne ha più ne metta.

Caffè immancabile a destra della tastiera, poco sopra il mouse.

Pantaloni comodi di una tuta che certo non fanno “pendant” con il maglione blu e camicia bianca, l’eleganza ai tempi delle video chat.

Sul monitor cominciano a comparire, alla spicciolata alcuni visi.

Due o tre noti, gli altri no.

È un gruppo di persone che ha deciso di incontrarsi in video per discutere di COVID. Partecipo in veste di “esperto”, sono l’unico medico della chat.

Ho risposto all’invito consapevole dei rischi ma anche convinto che tra i nostri doveri di medico vi sia anche quello di condividere e, soprattutto, spiegare.

Lontani dalla medicina “baronale” e paternalistica di una parte della seconda metà del XX secolo, la medicina di oggi deve essere basata sul dialogo, condivisione di scelte e percorsi, fiducia.

Eccoci. Si va in onda.

<< Non ce la faccio più >> è il saluto della signora, capelli brizzolati e viso cordiale, che staziona nell’angolo in alto a destra. Seguono applausi generali. Difficile contestare questa affermazione. Chi di noi non pensa lo stesso?

<< Mia figlia mi ha raccontato che una sua amica aveva fatto un tampone negativo ma ha avuto febbre e le hanno detto che poteva essere il COVID, ma come è possibile? >> Mormorii diffusi dagli altri visi sullo schermo. A parlare è un signore sulla cinquantina, occhiali squadrati, come il viso. << saranno tamponi difettosi? che ne pensa dottore? >>.

Eccomi chiamato in causa, iniziamo.

<< La questione dei tamponi è complessa >> spiego << I tamponi attualmente in uso hanno un problema di sensibilità >>.

<< Eh no dottore, non cominciamo a parlare difficile >> mi squadra, a ragione, una giovane ragazza, dietro di lei l’immagine di piante e fiori che paiono appartenere ad una serra, una visione quasi bucolica.

<< Mi spiego subito >> Tranquillizzo.

<< Qualsiasi test in medicina ha una SPECIFICITA’ e una SENSIBILITA’. La SPECIFICITA’ ci dice la capacità di identificare i negativi. Il tampone in oggetto si stima abbia una specificità di più del 98% vuol dire cioè che se viene positivo è certamente positivo >> prendo fiato e controllo con lo sguardo di non aver perso nessuno.

<< La SENSIBILITA’ invece è la capacità di identificare i positivi. E qui nascono i problemi. Si stima che i tamponi attuali possano avere una sensibilità non altissima >> pausa << vuol dire che se un tampone viene negativo ci può essere la possibilità che in realtà non lo sia>>.

<< Come può accadere? >> mi chiede dall’angolo in basso a sinistra del monitor, una voce senza viso (non inquadrato).

<< Può succedere per due motivi: il primo un’errata esecuzione manuale del tampone che deve essere correttamente posizionato perché possa raccogliere materiale virale, il secondo la presenza di una bassa carica virale del paziente. Se la quantità di virus nelle cavità nasali non è sufficiente può non essere riconosciuto dal test>>.

Vedo facce tirate.

<< Per quanto sui mass media si cerchi sempre di semplificare, la medicina vera è da sempre territorio del dubbio>>.

<< Allora anche i sierologici, la ricerca degli anticorpi ha lo stesso problema?>> domanda diretta da un signore che nel porla sbilancia la tazzina in mano e rovescia alcune gocce di caffè sulla telecamera. L’emozione gioca brutti scherzi.

<< La ricerca degli anticorpi presenta altri problemi. In questo caso è un esame ematico (del sangue), non presenta i problemi del posizionamento del tampone. Sensibilità e specificità sono alte, molto alte. Il problema è un altro. >>

Attimo di pausa. Mi chiedo se sto aiutando, se si capisce quello che cerco si spiegare, cerco di non aggiungere confusione alla tanta che già imperversa da due mesi.

<< Il problema degli anticorpi>> riprendo << è l’interpretazione della positività>>.

<< Mi spiego, se risulto positivo alle IgG (ma già sono disponibili altri test che comprendono le IgM) il test mi dice che sono venuto a contatto con il virus e il mio corpo ha creato anticorpi.>>

<< E a quel punto sono immune giusto? Ho letto che si può avere il patentino di immunità>> chiede un distinto signore che si è connesso a chat già avviata.

<< Nessun patentino di immunità >> ribatto spegnendo purtroppo subito gli entusiasmi <<almeno al momento>>.

<< Il problema, sapete, è che dobbiamo ancora capire, la scienza deve ancora capire e dimostrare, quanto quegli anticorpi siano protettivi. Pensate al morbillo o alla parotite, malattia per la quali generalmente sviluppiamo anticorpi permanenti e protettivi (neutralizzanti). Vuol dire che una volta vaccinati o una volta guariti non possiamo più ammalarci nuovamente. Pensiamo all’opposto al virus dell’HIV o HCV per i quali non sviluppiamo anticorpi neutralizzanti.>>

<< Ma allora a cosa servono i sierologici per gli anticorpi? Tutto inutile?>> Incalza il signore del caffè versato.

<<No, possono essere utili al momento a livello epidemiologico, ci dicono quale percentuale della popolazione è già venuta a contatto con l’infezione, ma certo non danno al momento la possibilità di ritenersi totalmente immuni, dovremo continuare ad usare protezioni e accorgimenti come le distanze>> concludo << saranno studi e ricerche dei prossimi mesi a indicarci quanto duratura sarà la protezione anticorpale acquisita, se saremo fortunati potrebbe essere quella fornita da altri virus simili, cioè 12-24 mesi. In tale caso se ci fosse un vaccino basterebbe fare un richiamo annuale ma è tutto ancora da verificare>>.

<< Non ne usciremo più allora dottore? Tamponi che non danno risultati certi, anticorpi che non sappiamo ancora interpretare, perché tutto questo tempo ci vuole? …>> si sente tutto lo scoramento nel tremolio della voce sospesa a fine domanda.

<<No, guardate… per noi che della medicina abbiamo fatto una ragione di vita assistere a ciò che accade in questi due mesi è qualcosa di epocale. La scienza non è mai stata così veloce in epoca moderna come ora. Capisco per l’osservatore esterno che settimane e mesi sembrino ere geologiche, ma per la scienza i tempi normali si misurano in anni>>.

<< Abbiate fiducia>> proseguo << riguardo la terapia si stanno facendo passi da gigante, e anche sulla diagnostica. Solo non correte troppo dietro ai social, ai medici “STAR” e agli articoli, troppa confusione>>.

Si è fatto tardi, ora di cena, per loro dietro ai monitor e anche per noi, della compagnia del diario.

11 di Maggio… Chiacchere in libertà…


10 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Chi decide chi è normale? La normalità è un’invenzione di chi è privo di fantasia.>>

(Alda Merini, poetessa)

ISTANTANEE (la quasi-normalità)

Un leggero ticchettio, non costante. Accelerazioni e improvvise frenate alla ricerca di un ritmo non definito.

Due dita per mano, 4 voci dissonanti. Il tamburellare distratto e annoiato sul volante.

Un sole caldo, quasi estivo, attraversa il parabrezza senza incontrare ostacoli sino ad illuminare il volto dell’uomo alla guida. Un braccio, il sinistro, appoggiato sul finestrino aperto. Nessuno siede al fianco del guidatore ma un passeggero è presente, sul sedile posteriore, dal lato opposto al guidatore. Sta osservando fuori una scena mai vista. Un corteo di auto interminabile sia osservando frontalmente che posteriormente. Una lunga catena di esseri umani in scatole di metallo.

Uno spettatore che provenisse dal mondo del 2019 rimarrebbe stupito e attonito nell’instante in cui, percorso il lungo corteo, riuscisse a giungere al suo principio.

Scoprirebbe il Sacro Graal all’epoca del COVID: un fast-food con drive-in (cioè cibo da asporto con consegna in auto secondo l’italico idioma).

Un ciclista affianca l’auto e rallenta.

Una bici rossa, lucidata per due mesi in attesa di oggi.

Lo sguardo si posa sul Corriere della Sera appoggiato sul sedile anteriore del passeggero.

Campeggia a tutta pagina un titolo che nella sua ordinarietà è straordinario << Economia, scontro nel governo>>.

La bici ondeggia e si ferma.

Un senso di confusione pervade l’uomo. Teme sia colpa, come letto sui social, dell’anidride carbonica respirata all’interno della maschera durante la pedalata. Sposta la maschera ed in un gesto liberatorio inspira sino a sentire tremare il diaframma. Segue un vigoroso colpo di tosse. Lo sforzo e l’aria colma di gas di scarico delle auto in colonna si fanno sentire. << Forse meglio la mia andidride>> sorride tra sé e sé.

A nulla è servita l’ossigenazione.

Quella pagina del Corriere resta li, sul sedile dell’auto, a sfidarlo.

Cosa ha di eccezionale? Nell’intera prima pagina, per la prima volta da tempo ormai immemore, nessun titolo cita i termini “coronavirus” o “COVID”. Si parla della ricandidatura della cancelliera Merkel in Germania, degli scontri nel governo sulla futura gestione dell’economia del paese, si parla di Cina come partner economico. Solo il “Caffè” di Gramellini, in fondo, ci ricorda ancora che siamo in epoca COVID.

Una pagina “normale” di un giornale di un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi.

Si abbassa il finestrino, il guidatore risentito chiede di allontanarsi dall’auto. Un gesto di distanza che richiama immediatamente al presente.

Il ciclista si sposta, perde l’equilibrio e una folata di vento gli strappa il cappello.

Il cappello prende il volo, s’innalza sopra la sterminata coda di veicoli, sorpassa la rotonda ben sopra il palo della luce, vorticando si dirige verso la zona commerciale.

Accenna ad una caduta, riprende quota, danza con le correnti.

Sotto di sé cominciano a scorrere le vie centrali di nuovo trafficate.

Poi, d’improvviso come era comparso, il vento si acquieta.

Ed è un lento ma progressivo precipitare che lo porta, vicino alla fontana “dal Luca”, ai piedi di una panchina.

<< Hai visto Giovannino, un dono dal cielo >> Un anziano signore con mano tremolante afferra il berretto.

Giovannino non è il solo altro ospite della panchina, al suo fianco Aldo, amico di briscola e bocce da una vita.

<< E se arrivano i vigili? >> Aldo è il più timoroso dei tre.

<< Gli diciamo che siamo “congiunti di bocce”>> replica Giovannino. E giù a ridere.

Una risata fragorosa.

Un rumore che sveglia poco più avanti la piccola Laura che sonnecchiava nel suo passeggino in una delle prime passeggiate “libere” della sua giovane vita. Piange. Non ha mascherina, troppo piccola. La madre che la sta prendendo in braccio, invece, indossa una FFP2 con valvola e sovrapposta una mascherina chirurgica. Indossa un paio di guanti. Nella borsa 4 bottigliette di amuchina con le quali nei 300 metri sino a quel momento percorsi da casa ha disinfettato ringhiere, maniglie dei locali, il passeggino 3 volte. Ha avuto due mesi di studio per prepararsi. Con il piglio del combattente comincia a cullare la piccola Laura senza per questo non dimenticare di lanciare un’occhiata di sfida ai 3 “signori della panchina”. <<facessimo tutti così piccola Laura >> mormora tra sé e sé << tra due settimane saremmo di nuovo in fase 1>>.

Ma non è giornata per la piccola Laura.

A pochi passi di distanza squilla un telefono. È un BEEP tutto sommato breve ma il pianto della bimba riprende.

Il telefono appartiene ad una giovane ragazza, all’incirca sulla trentina, occhiali tondi alla Harry Potter e capigliatura rossa sbarazzina.

Il suo viso si rabbuia.

Un’amica le ha inoltrato un post che spiega come i poteri forti stanno occultando alla popolazione cure e soluzioni per il COVID. È sinceramente indignata. Seleziona con gesto quasi automatico amici e contatti e inoltra a sua volta. Sospira. << Uomini contro uomini, anche adesso >> sussurra a sé stessa << non impareremo mai >>.

BEEP.

<< Ora no, non adesso! >> la voce da dietro la maschera è appena percettibile. Il visore si appanna.

Il telefono si è illuminato dentro la busta ermetica nella quale si trova mentre si lavora in area COVID.

Aspettava un messaggio importante dalla madre che ancora non può vedere, residente fuori regione, congiunta ma troppo lontana.

Con le dita goffe a causa delle due paia di guanti riesce ad aprire il messaggio.

Se i suoi occhi potessero essere visti, nascosti a metà dalla maschera ffp2 e per l’altra metà dalla visiera, mostrerebbero tutta la delusione e frustrazione possibile.

Osserva il messaggio inoltrato << ancora complotti e cure miracolose >>. La stanchezza fa il resto. Le mani vacillano, tremano, perdono la presa. Il telefono raggiunge il pavimento con un tono sordo attutito dalla busta.

Il sospiro del medico si unisce al rumore della maschera di uno dei pochi pazienti rimasti.

<<Vanno meglio le cose, sempre che la fuori capiscano come aiutarci e ci lascino lavorare>> è il pensiero ricorrente, in questi giorni.

Una coda di auto al Fast Food. Un giornale “normale”. Una panchina affollata (troppo). Una neo-mamma combattiva. Una paladina dei social. Un medico che comincia a vedere la luce.

Istantanee del mondo COVID all’inizio della FASE 2.

10 di Maggio … Ripristineremo la normalità appena saremo sicuri di cosa sia normale. Grazie. (Douglas Adams- scrittore) …

N.d.R: ricordo la mail a disposizione della compagnia per dubbi, chiarimenti riguardo il mondo "COVID":

compagniadeldiario@gmail.com

9 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Una fotografia non è né catturata né presa con la forza. Essa si offre. È la foto che ti cattura.>>

(Henri Cartier-Bresson)

Caro Diario,

Oggi un amico ci ha scritto una lettera.

Quando scoprii che stava seguendo le tue pagine e lessi i suoi primi commenti non potei non pensare che quando oramai più di 10 anni or sono iniziai la mia avventura vercellese furono anche le sue foto a introdurmi alla città, a mostrarmi le sue bellezze.

L’amico è Andrea Cherchi.

Per i lettori non vercellesi Andrea Cherchi è giornalista pubblicista e fotografo.

Le sue foto di Milano già da anni affascinano decine di migliaia di follower (cercate su facebook il progetto “Semplicemente Milano”).

Il COVID si è portato via la sua Milano. Quella viva, frenetica, quella da “bere”.

Così anche lui, come molti di noi, si è reinventato ed è andato alla scoperta della nuova città.

Questo ci racconta nella splendida, vibrante lettera inviata al Diario:

<< Caro Sergio, l’onore che mi fa il tuo invito a scrivere della mia esperienza in questi giorni così difficili è pari ad una gioia inattesa. Nella mia semplice carriera di fotoreporter ho sempre raccontato per immagini ed emozioni il grande fascino di Milano, l’operosità dei milanesi e la geniale frenesia dei suoi eventi che non ti danno tregua nemmeno un giorno. Qui, caro Sergio, le chiamano week con personaggi famosi e illustri che arrivano da tutto il mondo e abbracciano i nostri grattacieli e la nostra storia di persone semplici che in tanti chiamano “bauscia” e in pochi realmente conoscono. Persone semplici come quelle cantate da Svampa, Gaber, Jannacci con grandi sogni che rendono Milano una sorta di corridore che ha già fatto tre giri del campo quando gli altri sono ancora indietro alla partenza. Ecco perché a volte Milano viene invidiata e relegata a ruolo di città fredda.

Con la mia macchina fotografica e il mio cuore ho sempre raccolto questo ritmo e questo battito del cuore (e qui, so che di battiti te ne intendi) così meravigliosamente impazzito.

Poi, un giorno, quasi all’improvviso, un virus che pensavamo così lontano ha fermato tutto. Ha fermato il corridore al terzo giro, ha fermato i sogni, ha fermato le week e ha rallentato il battito. Da un giorno all’altro la mia macchina fotografica ed io siamo diventati spettatori e attori di un vuoto e di un silenzio irreale. Camminavi per piazza del Duomo e in Galleria ed eri testimone di una Milano irriconoscibile. Molti mi dicevano: “E’ come a ferragosto …”. Ma non era così. A Ferragosto sei contento che ci sia poca gente e senti la città tutta lì per te. In questi giorni faceva male vederla così desolata e vittima di un carnefice misterioso e subdolo. Un carnefice che ti costringe a dire frasi che reciti con un sorriso e che in realtà ti colpiscono, una, due, tre, cento volte, come una fucilata. “Io resto a casa”. Andrà tutto bene”, “Uniti ma distanti”. Un carnefice che ci ha tolto i nostri abbracci, la nostra vita sociale e il nostro sorriso. In una Milano deserta e silenziosa, risuonavano nella mia mente queste frasi che aggiungevano dolore al dolore, tristezza a tristezza. Un domino al contrario dove l’unica cosa che vuoi dire realmente è: “non gioco più”.

Ho camminato per giorni interi lungo i Navigli, nella piazza del Castello, in San Babila e in Porta Nuova. Ho scattato migliaia di fotografie che racconteranno una storia inedita e racconteranno la solitudine di giorni infiniti e di quei pochi visi intorno con le mascherine. Noi che un tempo guardavamo con sospetto e scherno le persone – una su centomila – che per qualsiasi motivo indossavano una mascherina. Foto che racconteranno di viaggi annullati, di attese invano e soprattutto di persone che non abbiamo neppure potuto salutare in una chiesa e in un cimitero. Vedi caro Sergio, nella mia semplice carriera ho sempre fotografato in solitudine l’allegria, le piazze piene di gente, gli eventi negli stadi, i concerti, persino un concerto con mille musicisti in un aeroporto. Ho sempre pensato e lo penso tuttora che fotografare in solitudine favorisse al massimo l’espressione del reale. Mai però mi era capitato di fotografare la solitudine per giorni e giorni in solitudine. Essere uno dei testimoni di questi giorni è stato ed è un bagaglio che sarà sempre sulle mie spalle anche quando la sera tornerò a casa e poggerò a terra il mio zaino. E poi vedere Milano così smarrita. Sentire asprezza da parte di chi nemmeno la conosce. Sentire le critiche verso i milanesi che finivano sempre con frasi del tipo “sono persone fredde che pensano solo a guadagnare”. Quando sentivo queste pugnalate pensavo alla bontà e alla generosità di mio padre che qui è nato e cresciuto e pensavo ad una vecchia canzone di Lino Toffolo che diceva: “i bambini di Milano nascon già col cuore in mano”. Ciao Sergio, abbi cura sempre di te e del tuo dono innato che in lingua italiana chiamiamo “altruismo”. Andrea >>

Vi invito a visitare la pagina di Andrea. Le sue foto sono e saranno nel tempo una memoria indelebile dell’anno in cui la vita si fermò.

9 di Maggio ... La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista (Bernardo Bertolucci)…

N.d.R: ricordo la mail a disposizione della compagnia per dubbi, chiarimenti riguardo il mondo "COVID":

compagniadeldiario@gmail.com

Foto: Andrea Cherchi (diritti riservati)

8 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< foglio bianco: un attimo di terrore mentre sospendo sul tasto dell’Olivetti il mio perplesso polpastrello di Damocle >> (Gesualdo Bufalino)

PAGINA BIANCA

Sino ad oggi, caro Diario, le pagine del diario sono state scritte quasi sempre di getto seguendo il tumulto dei pensieri

Poi d’improvviso il bianco.

Un foglio (virtuale), una tastiera. Il vuoto.

Mi aspettavo accadesse prima, tutto sommato era prevedibile.

La grande paura, “l’uomo nero” (il “babau” - direbbe il mio piccolo Francesco), di tutti gli scrittori. Come il panico da palcoscenico che stringe il cuore dell’attore dietro le pesanti tende del sipario che lo dividono dal vociare carico di aspettative del pubblico pagante.

Bianco.

La pagina bianca offre però spunti interessanti a chi resiste al suo paralizzante bagliore.

Anche il vuoto può ispirare.

Il vuoto è quello che abbiamo provato il primo giorno di “blindatura” dell’ospedale.

Quel vuoto che ha sottratto il fiato, fatto vacillare le gambe e piegato le schiene.

A quel vuoto abbiamo reagito con la forza del gruppo.

Nelle prime settimane di crisi non c’era tempo di rimirare il vuoto né di porsi il problema di pagine bianche.

Eravamo tutti indaffarati, perse le nostre fondamenta, a costruire giorno per giorno il nostro presente.

Chi dentro chi fuori dagli ospedali.

Qualsiasi attività quotidiana banale andava riprogettata, dalla spesa (come abbiamo letto in una recente testimonianza su queste pagine) all’attività clinica ospedaliera.

Il diario diventava il raccoglitore a fine serata di tutte le “dispense” del giorno. Un archivio di emozioni, fatti, istruzioni, paure, dubbi, poche certezze.

Per lunghe settimane non vi era nemmeno tempo di pensare ad una pagina bianca. Ed i vostri commenti, ringraziamenti, contributi, arricchivano (e arricchiscono) la narrazione rendendola unica.

Ora aprile ci ha salutati. Due mesi circa di privazioni.

Maggio è giunto, carico di incognite, tante domande e poche risposte.

Ed oggi una pagina bianca.

Spesso, rassicurando un paziente che presenta delle extrasistoli (N.d.R. battiti irregolari), spiego che la sensazione di “cuore che si ferma” dopo il battito extrasistolico non è nulla di preoccupante. È il cuore che si “resetta”. Una brevissima pausa che permette di riprendere il corretto ritmo cardiaco.

Ecco, oggi il diario si resetta dopo due mesi “aritmici”, caotici, irregolari.

Dopo due mesi dobbiamo tutti ritrovare un ritmo e per farlo ben venga una pagina bianca.

È la pagina che deve dividere il vivere il “presente” dal “progettare” il futuro.

Una pagina che sia uno spartiacque virtuale.

Domani, 9 Maggio, torniamo a progettare e vivere la Fase 2.

Domani ci alzeremo sapendo, rispetto ad una settimana fa, di essere un po' più liberi, anche se sarà una libertà ancora “vigilata”.

Dopodomani racconteremo con alcune “istantanee” come stiamo vivendo questa libertà ritrovata, quanto ci è costata, come dobbiamo averne cura perché non ci sfugga di mano.

Oggi come una goccia d’inchiostro scivolata da un pennino ci lasciamo avvolgere dal bianco della pagina.

Quali maggio, giugno, luglio ci attendono?

Nessuno di noi lo sa. Nessuno può prevedere con certezza.

Ma un futuro non scritto ha un grande vantaggio: senza un copione predeterminato possiamo recitare a soggetto, essere registi e produttori di quel futuro.

Guardiamo anche dietro, alle spalle, per un momento e chiediamoci quanta strada abbiamo percorso dall’inizio della crisi sino a questa pagina bianca. Quanta ne abbiamo percorsa noi, cosa o chi abbiamo perso durante la strada, cosa abbiamo capito, cosa lasceremo indietro e cosa porteremo con noi.

Ci avviciniamo al momento del commiato. Dal Dario (perché nulla è eterno) ma non per forza dalla Compagnia del Diario che seguirà la sua avventura con una pagina facebook dedicata per mantenere un contatto tra i condomini “virtuali”.

Non è ancora il momento però. Abbiamo ancora alcune pagine importanti da scrivere e alcuni amici che contribuiranno.

Domani il diario ospiterà infatti la lettera di un amico speciale, un volto molto noto e caro a molti vercellesi. La sua lettera ci mostrerà uno dei volti del mondo all’epoca del COVID.

Oggi terminiamo invece cominciando a fare due conti in tasca alla Compagnia del Diario:

75 giorni e 66 pagine del diario (+ 1 bianca)

Circa:

- 44.000 parole

- 14.000 “like”

- 350-400 membri “permanenti” della Compagnia del Diario

- 4600 commenti della compagnia del Diario

- Numerose condivisioni e ricondivisioni di cui non ho modo di tenere conto

- 4 continenti raggiunti da cui scrivono al Diario (Asia, Europa, America, Oceania)

8 di Maggio... Mai avrei pensato che queste pagine diventassero ali (Alda Merini – poetessa)…




7 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<< Non conosco nessun comandante che non abbia mai sbagliato >> Robert McNamara – Segretario alla Difesa americano durante la guerra in Vietnam

GLI ERRORI DEI GRANDI

Sipario:

Piana di Carre (oggi Harran in Turchia).

40.000 uomini hanno seguito il loro comandante in una campagna militare che avrebbe dovuto essere gloriosa e trionfale.

Attendono nella piana l’arrivo del nemico. Lo fanno con la solita formula vincente di tante e tante battaglie. Un quadrato impenetrabile di scudi e lance, impossibile batterli nel corpo a corpo.

Ma dove non può la forza può l’astuzia.

I Parti, l’esercito rivale, contano sulla cavalleria e sull’abilità dei cavalieri di scagliare frecce galoppando, addirittura voltandosi durante la corsa.

È un massacro. 20.000 romani cadono quasi senza combattere e con loro il comandante.

Correva l’anno 53 a.C. Il comandante caduto era uno degli uomini più potenti di Roma, Marco Licinio Crasso, l’errore gli costò la vita.

Sipario:

Un piccolo villaggio sulle colline a sud di Bruxelles.

Colline e avvallamenti continui che rendono il terreno difficile da valutare in un continuo saliscendi. Il terreno è anche fangoso complice una pioggia caduta di notte e protrattasi sino ad inizio mattina.

Se ne accorge quasi subito il grande generale che osserva sulla sommità della collina. Le palle da cannone lanciate non rimbalzano sul terreno ma affondano nella fanghiglia. Inoltre, il fumo dei cannoni e l’andamento sinuoso del terreno coprono la visuale e comunicare con le truppe diventa difficile, così come identificare i movimenti del nemico.

Solo allora si rende conto che la sua grandezza, questa volta, non lo aiuterà.

Lo attende una disfatta che passò alla storia.

Era l’anno 1815 ed il paesello, prima sconosciuto ora destinato a entrare nella storia era quello di Waterloo. Napoleone, il grande Napoleone, sbagliò e pagò un alto prezzo.

Sipario:

Seconda metà del secolo XIX. Un grande ricercatore del suo tempo e grande scienziato, Lord Kelvin William Thomson (cui si deve tra le altre cose la scala di misurazione della temperatura assoluta) decide di calcolare l’età della Terra. Lo fa utilizzando dati sulla conduzione termica e rilievi di temperatura nel sottosuolo. È convinto sia un metodo sicuro. Calcola la vita della Terra in 98 milioni di anni. Noi oggi invece sappiamo essere stimata in circa 4,5 miliardi di anni. Questo errore di valutazione, provenendo da un’eminenza scientifica del suo livello, venne considerata attendibile e non confutata per quasi mezzo secolo. Ci volle la scoperta della radioattività per riuscire a calcolare la stima attuale.

Cosa hanno in comune Crasso, Napoleone, Lord Kelvin? Due cose.

UNO:

Quando le scelte di un condottiero (o di uno scienziato) sono guidate da ambizione, eccessiva autostima o semplice presunzione, anche il migliore di essi può commettere errori e non esserne consapevole.

DUE:

In tutti e 3 i casi nessuno ha avuto il coraggio di dire al “comandante” che stava sbagliando. Una reverenza verso l’autorità che porta a considerare come tutto vero e giusto a priori qualsiasi cosa dall’autorità venga affermata. Lo spirito critico si ferma di fronte alla caratura (vera o presunta) di chi afferma una “sua” verità.

A tutto questo pensavo in queste settimane di frequentazione assidua dei social al tempo del COVID.

La “scienza dei social” (ma spesso anche dei mass-media più quotati e professionali) non segue sempre il metodo scientifico.

La scienza vera, quella delle schiene piegate nei laboratori, delle vite spese a osservare una sequenza genomica o un microscopio, quella delle prove e ri-prove, delle centinaia di ore di studio, quella che si mette in discussione tutti i giorni e cerca conferme e condivisioni con la comunità scientifica, raramente si trova sotto i riflettori delle televisioni o sulle prime pagine dei giornali.

Non è “fotogenica”. E non promette (quasi mai) miracoli né fornisce verità assolute.

Molto più fotogenici sono i condottieri, gli scienziati divenuti famosi per aver fatto in vita loro scoperte di rilievo internazionale (a volte vere, altre volte più presunte e vendute con una certa abile autoreferenzialità).

Come si può smentire l’affermazione di un grande condottiero del passato che su YouTube rivela verità sconvolgenti sul virus, previsioni paradisiache o infernali a seconda dei casi.

Quando si cerca di spiegare, di confutare quanto il grande condottiero, senza alcuna prova scientifica, afferma, ci si sente rispondere << Eh ma dai! Questo ha vinto un Nobel!>> oppure << Scherziamo, guarda quante lauree e titoli da professore (N.d.R. salvo poi scoprire magari che molte sono Lauree di dubbia origine e i titoli di professore pure).>>

Quando ci imbattiamo sui social nei grandi “profeti” della scienza ricordiamoci di Crasso, Napoleone, Kelvin.

Essere stati “grandi” non vuol dire non poter sbagliare, al contrario la storia insegna che proprio i grandi, in una sorta di delirio di onnipotenza, hanno commesso anche i più grandi errori della storia stessa terminando, a volte, una vita di successi con rovinosi fallimenti.

Non giudichiamo allora le notizie che riceviamo sul COVID considerando solo il curriculum passato di chi esterna. Chiunque faccia affermazioni, anche un premio Nobel, deve rispettare il metodo scientifico. Dimostrare, condividere, verificare la ripetibilità delle proprie conclusioni, confrontarsi con la comunità scientifica mondiale.

E forse, se me lo consentite, rinunciare alle sirene della popolarità “social”.

Più umiltà, lavoro nelle retrovie e serietà.

Questo come medici, pazienti, cittadini chiediamo a chi ha responsabilità in campo medico-scientifico e un nome da “spendere”.

7 di Maggio… errare humanum est…


6 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<<A quanto possiamo discernere, l’unico scopo dell’esistenza umana è di accendere una luce nell’oscurità del mero essere>>

(Carl Gustav Jung)

DUE DONNE

Non è semplice aprirsi, condividere, mettere a nudo le proprie emozioni.

Troppo spesso temiamo che mostrare il nostro lato umano, con i suoi punti di forza e le sue debolezze, possa in qualche modo “minare” la nostra immagine di professionisti.

Medici e infermieri sanno bene quanto l’essere empatici non sia solo un diritto, ma un dovere per chi come noi della cura delle persone ha fatto un mestiere.

Non è semplice, deve venire da dentro, difficilmente può essere insegnato se non per grandi linee.

La crisi COVID lo ha ricordato a tutti noi operatori, ancora di più.

Nelle prime giornate nelle quali regnava molta incertezza riguardo approcci diagnostici e terapeutici la principale “arma” che avevamo era la vicinanza.

Bisognava riuscire a donare un sorriso ed una parola buona senza riversare sul paziente le proprie incertezze, dubbi e paure. Non era facile e non è detto che siamo sempre riusciti a farlo.

Sin dall’inizio ci siamo imposti di aiutarci. Fare gruppo e cercare di non lasciare nessuno da solo. Qualcuno tra di noi ha fatto di più.

Dedico la pagina di oggi a quei medici (ma anche infermieri) che hanno aiutato i colleghi ad aiutare i pazienti. È una catena umana.

A nome di chi ha aiutato ad aiutare ho invitato oggi, caro Diario e cara compagnia, un’ospite, un’altra voce che si aggiunge alla coralità di questo diario.

Una voce con una particolare sensibilità.

Si tratta della dott.ssa Ferraris Silvia, psichiatra e psicoterapeuta responsabile del Servizio Psichiatrico di diagnosi e cura all’ospedale di Vercelli.

È uno di quei tanti medici di cui ho parlato su queste pagine che ha affrontato attivamente la crisi COVID facendo di una crisi un momento di crescita e sviluppo. Ha affrontato la quarantena del suo reparto, ha aiutato pazienti e non solo. Perché il suo supporto è andato anche a tanti colleghi senza guardare orari di lavoro e timbrature, un lavoro fatto di incontri in ospedale e video chat da casa.

Il racconto che segue è un breve viaggio emozionale in uno dei tanti momenti indimenticabili vissuti da Silvia in questo percorso d’aiuto. Un piccolo sprazzo di luce, uno dei tanti che persone come lei hanno saputo portare e trasmettere.

<< .... Una signora ricoverata, oggi, dopo settimane di agonia, finalmente è riuscita a salutarmi con una mano e a parlarmi.

L’avevo già incontrata durante il suo percorso di malattia in rianimazione. Ora sta bene, respira da sola. E può iniziare a narrarmi la sua storia. Lei seduta nel letto e io avvolta in una tunica azzurra, accanto a lei, occhi negli occhi. Lei è sopravvissuta alla morte, io sono reduce da mesi di grande fatica. Chiacchieriamo amabilmente. Come due amiche, che hanno condiviso una grande impresa. Unite da esperienze diverse, ma tangenti. Abbiamo in comune di essere passate accanto alla morte, di averla sfiorata, di avere sulla pelle ancora il ricordo indelebile di alcune emozioni vissute. Io come medico sopravvissuto, lei come paziente, sopravvissuta. Io un po’ mi commuovo, ma ho la mascherina che protegge non solo dal virus, ma anche da emozioni che a volte ti sorprendono, inaspettate. Le mi “riconosce”, è contenta. Anche io sono felice. Per lei, per noi, per questo momento. Per esserci stata.

Il mio più grande riconoscimento è tutto qui, in questa stanza, con questa donna, in questo incontro. Nell’infinità e nell’intimità di un silenzio carico di mille parole. Lontano da riflettori abbaglianti, da salotti borghesi, da opinioni e chiacchiere inutili. Qui, in questo eremo che sa di poesia. In questa stanza di ospedale carica di mille significati. Non ci sono eroi, ci siamo Noi, due donne, che si comprendono e si riconoscono senza bisogno di troppi convenevoli. Nessuna prima di copertina potrà mai riassumere e sostituire la magia di tutto questo. Il dono più grande. Noi Due. Sole. Nella stanza dove la vita ci ha concesso il dono più bello e prezioso: quello di questo Oggi, unico e irripetibile, eterno. Il nostro comune sentire: il Presente. >>

6 di Maggio… Illuminiamoci d’immenso…

N.d.R: ricordo la mail a disposizione della compagnia per dubbi, chiarimenti riguardo il mondo "COVID":

compagniadeldiario@gmail.com


5 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

LO SPECIALIZZANDO “ESPIATORIO”

Qualche giorno fa un lettore speciale del diario, il collega Andrea Rognoni mi ha suggerito una pagina da scrivere.

Speciale perché oltre ad essere un caro amico è anche un noto professionista medico molto stimato e noto.

È da molto tempo la mia coscienza critica, come solo un vero amico sincero può essere.

Discutiamo, ci confrontiamo e da amici veri non è detto si debba sempre pensarla allo stesso modo (diciamo quasi sempre però).

Mi ricordava l’amico che non avevo ancora parlato degli specializzandi.

Perché parlare di loro?

Era appena accaduto un fatto grave che ha causato sdegno nella comunità medica.

Uno di quei fatti che spiega come sia questione di un attimo passare da presunti eroi a capri espiatori.

Qualche giorno fa avevo scritto un post “Chi rema contro?” che affrontava un problema simile.

All’invito dell’amico si è unita poi un’altra lettrice del diario, Patrizia Longo che ha un figlio specializzando, a Padova (luogo del misfatto che racconteremo).

Ecco il diario corale che mi piace, lo scriviamo insieme, giorno per giorno.

Cosa è successo che ha scosso gli animi?

Facciamo un passo indietro, chi è, innanzitutto, uno “specializzando”?

Se ripenso alla mia esperienza ricordo sensazioni ed emozioni ancora vive.

Lo specializzando è un medico, fatto e finito. Laureato, abilitato.

In altri paesi europei non sarebbe, come è stato in passato e a volte anche nel presente in Italia, trattato o considerato uno studente o poco più.

È un professionista che, in grado di prendersi cura di un paziente, del suo percorso diagnostico e terapeutico, sta affinando capacità e conoscenze per seguire in modo particolare un aspetto specifico della medicina.

In altri paesi europei il medico specializzando è un medico che lavora al pari ed a fianco dei colleghi più anziani secondo la filosofia del “Teaching Hospital” rispettato e considerato. Si impara mentre si lavora.

Ai miei tempi (comincio a parlare come un anziano) non era nemmeno considerato un lavoro.

Avevamo una “borsa” senza alcun contributo pensionistico, senza malattia, senza maternità, nessun diritto. Si lavorava senza limiti di orario con la sola vera ricompensa della gratitudine dei pazienti e dei medici “anziani” che aiutavamo.

Eppure ricordo l’entusiasmo, la passione. Con l’amico Andrea abbiamo attraversato i 4 anni di specialità in cardiologia aiutandoci, crescendo insieme, facendo squadra, condividendo successi e insuccessi. Di giorno in specialità e di notte in Guardia Medica (perché qualche contributo era meglio metterlo da parte). Avevamo quell’età in cui senti ancora di poter conquistare il mondo.

Ora la condizione dello specializzando è migliorata, ora ci sono contributi, malattia e maternità.

Resta però ancora un ruolo di professionista da inquadrare meglio e non sempre a pieno considerato dal paziente e soprattutto, come accaduto di recente a Padova, utilizzato come capro espiatorio.

Gli specializzandi, spesso indispensabili con le difficoltà odierne a reperire specialisti, sono risultati fondamentali quando è scattata l’emergenza.

Medici neo-formati che non si sono tirati indietro, si sono offerti volontari, si sono rimboccati le maniche, indossato mascherine e visori.

Medici che avrebbero potuto dire di no ad alcune mansioni ed invece hanno mostrato un senso dell’etica e della missione di medico ben superiore alla loro età anagrafica.

Forze giovani senza le quali questa battaglia sarebbe stata ardua.

E li abbiamo ringraziati questi giovani medici, il futuro della nostra sanità?

Macché.

Anzi, perché non attaccarli, perché non cercare in loro l’untore di manzoniana memoria?

Un bersaglio facile, non organizzato, sparare su loro era semplice. Più semplice che ammettere colpe di aziende, governi centrali e regionali.

Più facile che ammettere che le regioni avevano da quasi 10 anni nei cassetti i piani in caso di pandemia mai attuati (che tra l’altro prevedevano accantonamento di DPI).

Cosa è successo?

<< Gli specializzandi escono di casa e hanno una vita sociale molto attiva. Sono questi i soggetti che nel momento in cui si inseriscono nell'ospedale creano maggior pericolo >>

Questa infelice frase, credetemi, è stata pronunciata dal Direttore Sanitario dell’Azienda Ospedaliera di Padova nel corso di un incontro pubblico qualche giorno fa.

Il direttore sanitario, lungi dal ringraziare chi invece ha prestato sin da subito il proprio contributo nemmeno dovuto e lo ha fatto correndo il rischio di ammalarsi, accusa, gratuitamente, gli specializzandi di “avere una vita sociale”. Cioè senza alcuna prova accusa gli specializzandi di aver violato le regole dei decreti ministeriali e regionali e di aver fatto baldoria.

Perché tutto questo?

Per nascondere inefficienze del sistema? Per sviare l’attenzione da protocolli assenti o carenze organizzative?

Non sta a me giudicare.

Mi permetto solo di dire una cosa a quei ragazzi e ragazze: GRAZIE!

Siete e sarete medici migliori di chi ha provato a scaricare su di voi responsabilità di altri.

Questa esperienza a inizio carriera vi farà crescere anche più velocemente di quanto siamo cresciuti noi alla vostra età.

Avete imparato come la scienza occidentale non sia infallibile, come la medicina non sia pronta a tutto. Ma avete anche imparato con quale forza medici e infermieri uniti abbiano saputo affrontare l’imprevedibile. Avete scoperto energie e forza di volontà che non immaginavate di avere.

Imparerete anche da questa lezione. Vi ricorderete, quando sarete voi con le leve di comando in mano, di come sia importante rispettare il lavoro di chi sarà a voi sottoposto.

Per la cronaca all’episodio sono seguite alcune timide scuse di rito, ci mancherebbe, ma non è sufficiente.

Quando incontreremo i loro visi giovani e freschi in giro per le corsie ricordiamoci che non sono i “dottorini”, sono professionisti che stanno dando un grande contributo e lo stanno facendo ben oltre i loro doveri.

Grazie a tutti! Ed un saluto particolare ad uno specializzando di Padova, il collega Sergio Omodei Zorini (non ho ancora avuto il piacere di conoscerlo di persona ma rimedieremo) che deve essere un ottimo professionista considerando quanto ne è giustamente orgogliosa la “condomina” della nostra compagnia citata all'inizio, sua madre.

Questi sono i giovani medici con i quali costruire una sanità migliore di quella che abbiamo costruito noi.

5 di Maggio …. Una mela al giorno toglie lo specializzando di torno. Basta avere una buona mira

…. (adattato da citazione di Sir Wiston Churchill)

4 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

<<La libertà e la vita appartengono a quelli che le conquistano ogni giorno>>

(Johann Wolfgang Von Goethe)

TANA LIBERI TUTTI ?

Non ho dormito molto.

Dall’aria esterna mi dividono i vetri, una tenda, un tavolo ed una tazzina di caffè che si sta raffreddando.

Attendo di vedere il colore comparire sulle foglie d’erba oltre il vetro.

La visione notturna dell’uomo ha infatti un limite, elimina i colori.

I “bastoncelli” nella retina riescono a carpire anche minime fonti di luce riflessa ma, ahimè, non i colori.

Nell’istante in cui i fili d’erba verranno inondati di verde saprò che è l’ora giusta.

Mi attendo un verde smeraldo, luccicante. Un colore che solo i primi raggi di sole rinfrangendosi sulle timide gocce della rugiada notturna, le poche superstiti in questa fresca notte di inizio Maggio, possono creare.

Quella vita donata ai fili d’erba sarà un segnale.

È la mattina del 4 Maggio.

Un giorno qualsiasi nel 2019, IL GIORNO nel 2020.

Google mi avvertiva che l’alba sarebbe sorta alle 6:09.

Ma la notte di guardia tiene svegli così alle 5.30 sono già alla finestra.

5.30

Una notte di guardia speciale.

Ho timbrato in zona rossa, timbrerò alle 8 in zona se non bianca, almeno rosa.

Sono uscito di casa ieri sera con il solito modulo di autocertificazione (casa-lavoro).

Questa mattina uscirò dal parcheggio dell’ospedale e, se solo volessi, potrei acquistare in modalità take-away, potrei andare nella seconda casa (se l’avessi), potrei andare al parco. Con un modulo, diverso (il 4° o il 5° ho perso il conto).

Ma non farò niente di tutto questo.

Sono due settimane che sogno e idealizzo questo momento.

Passerò da casa, sveglierò i miei figli, una rapida colazione, e faremo la cosa più importante da fare.

Andremo a trovare i nonni che non vediamo (se non in videochat) da più di due mesi.

Immagino che potremmo festeggiare il 4 come il giorno delle famiglie riunite. Anche se per chi ha familiari fuori regione sarà ancora il momento dell’attesa.

5.40

Ancora niente.

Anche se il nero cielo sullo sfondo poi così tanto nero non è più. Ha colori sul rossiccio bruno, giallo cupo.

Ho fatto il pieno, ieri.

Non serviva, farò solo 80 km tra andata e ritorno verso Oleggio.

Ho fatto il pieno per il gusto, semplice e unico, di poter pensare che, se solo volessi, potrei prendere la macchina e attraversare tutto il Piemonte (se avessi ovviamente una seconda casa o un congiunto in giro per la regione).

5.50

Ancora niente.

Qualche timida idea d’ombra si affaccia sul cortile fuori dal reparto. Ancora indefinita, creata da luce riflessa e non diretta.

E un po’ di timore si affaccia.

Timore e la speranza che questa nuova libertà conquistata non ci faccia perdere il buonsenso.

Che chi uscirà questa mattina, in pubblico, ad annusare l’aria fresca della libertà lo faccia a distanza e con una mascherina se in luogo ristretto.

Ho preparato i bambini, spiegato loro perché non potranno baciare e abbracciare i nonni che non vedono da mesi e perché dovranno indossare mascherine. Spiegarlo ad un bimbo di 5 anni appena compiuti non è facile. Bravo e diligente, cresciuto tanto anche lui in questa crisi che a crescere ha costretto un po’ tutti noi, lo ha capito subito: è colpa del “VIUS”.

Siamo pronti.

5.55

Con un lieve anticipo rispetto a quanto annunciatomi da Google qualcosa si muove.

Inizia sommessa una breve sinfonia di cinguettii.

Un crescendo lento ma costante.

Le foglie d’erba sono ancora grigie ma loro cantano.

Della natura e dei suoi ritmi, probabilmente, hanno capito più di noi.

Ripenso alle immagini di questi mesi, la natura che occupava posti lasciati liberi dall’uomo. Le meduse veneziane, i cerbiatti di Casale, le volpi in diversi posti.

Se l’uomo sparisse dalla Terra la natura colmerebbe quel vuoto con una velocità sorprendente.

Ma non è ancora tempo per l’uomo di lasciare questo pianeta. Non ci ha piegato il COVID, solo ammaccato. Saremo noi a piegarci da soli se non avremo rispetto del nostro habitat, questo dovrebbe insegnarci il coronavirus.

6.00

Verde!

Lo vedo, senza dubbio. Non è suggestione.

Otto minuti prima del previsto.

Non voglio dimenticarlo quel verde.

Giubbotto. Scale.

Afferro delicatamente un filo d’erba. Lo stacco alla base e lo ripongo in una piccola busta di plastica. Ha il sapore del verde “fresco”, appena dipinto.

Viviamo anche di simboli. Lo sono le date come quelle dei compleanni, gli anniversari, lo sono i diplomi degli studi, le foto dei momenti unici della vita.

Può esserlo anche un filo d’erba, un semaforo verde verso la strada della normalità.

Tana liberi tutti dunque? NO. Prudenza, disciplina e ricordiamo sempre... << io proteggo te, tu proteggi me! >>

4 di Maggio … e uscimmo a riveder le stelle (con buonsenso e protezioni) …

N.d.R: ricordo la mail a disposizione della compagnia per dubbi, chiarimenti riguardo il mondo "COVID":

compagniadeldiario@gmail.com

3 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

UOMO contro MEDICO?

Ore passate là in alto. Esposto ai venti, all’aria salina che, fredda o calda a seconda dei casi e delle latitudini, sferza il viso e lo scava. Rughe come anelli della corteccia di un albero.

La mano destra protesa sopra l’arcata cigliare come per sostenere lo sguardo.

Il braccio sinistro stretto sull’albero di maestro.

Le gambe stanche.

Un lavoro ingrato, l’occhio posato costantemente sulla linea blu dell’orizzonte dove mare e cielo si mescolano e si fondono.

Il lavoro della vedetta sulla coffa delle navi che hanno solcato mari e oceani sino all’inizio del XX secolo.

Nella vita della vedetta vi era un momento, magico, unico e irripetibile.

L’istante nel quale l’armonia della linea d’orizzonte veniva infranta dalla comparsa di un’imperfezione, un tremolio. Alla vista non era possibile ancora definire colori, forme e dimensioni. Alla vedetta esperta bastavano pochi secondi per vedere in quell’interruzione di armonia di blu la TERRA.

E spesso quella visione ed il suo annuncio erano seguiti da un giusto premio.


Abbiamo anche oggi la nostra TERRA.

In piedi sulla coffa guardo in direzione 4 Maggio, domani.

E la vedo, laggiù in fondo, l’imperfezione, l’increspatura.


Immagino quel puntino che pian piano prenderà la forma di valli, montagne, spiagge, palme.

Si vedranno in volo i primi uccelli.

E si griderà, un canto corale: Terra!

Ma non riesco ad osservare quel miraggio in modo univoco.

Due persone dentro di me aspettano l’alba del 4 Maggio.

L’uomo e il medico.

E non sono d’accordo tra di loro. Litigano, discutono, si accapigliano. Uno scontro che scuote le radici dell’anima.

Perché l’uomo vorrebbe gioire. Vorrebbe respirare l’aria frizzante del mattino del 4 Maggio come l’ergastolano graziato mentre le porte del carcere si serrano alle sue spalle.

L’uomo vorrebbe correre ad abbracciare gli amici più cari.

L’uomo vorrebbe prendere sedersi al tavolo del suo ristorante preferito e riscoprire il piacere di solleticare le papille gustative.

L’uomo vorrebbe salire in macchina, divorare il nastro d’asfalto sino alla spiaggia più vicina ed immergersi, vestito, nell’acqua purificatrice del mare della sua infanzia.

L’uomo vorrebbe.

Il medico no.

Il medico ha letto e segue con preoccupazioni dati internazionali dei primi “rimbalzi” dei contagi dopo le parziali aperture.

Il medico ha visto e vissuto la tremenda forza della prima ondata di malati. Ha vissuto la carenza di dispositivi di protezione, l’ansia, l’ospedale travolto e squassato nelle sue stesse fondamenta.

Il medico ha visto il COVID portarsi via le altre malattie.

Il medico rivorrebbe riprendere a curare tutte le altre malattie che non sono scomparse, solo dimenticate.

Ma esiste la possibilità di mediare tra l’uomo e il medico.

Credo, sono convinto, sia possibile e doveroso.

Non possiamo non ascoltare il grido di dolore e di aiuto di chi è sull’orlo della rovina economica.

Il medico ricorderà del 2020 la generazione di nonni portata via (ma anche giovani!), ricorderà il dolore della solitudine. Ricorderà i sacchi di plastica, le maschere, l’odore penetrante degli igienizzanti. Ricorderà il mondo opaco attraverso una visiera rigata. Ricorderà le lacrime di chi poteva ricevere solo al telefono notizie del proprio caro.

L’uomo ricorderà invece la reclusione domestica, gli amici rimasti senza lavoro. Ricorderà la depressione e l’angoscia di chi non ha potuto vedere parenti lontani e vicini. Ricorderà i compleanni solitari dei suoi figli con la torta trasmessa in video chat. Ricorderà l’amico ristoratore osservare con lo sguardo perso, seduto sull’uscio del ristorante chiuso, il vuoto di una piazza.

Il 4 Maggio una cosa vogliono entrambi, medico e uomo.

Vedere una comunità compatta e solidale, una comunità che abbia capito le regole di convivenza che dovremo seguire nei prossimi bene, per il bene di tutti. Perché le azioni di ognuno di noi avranno ripercussioni sugli altri. Perché la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri.

Perché non siamo isole sperdute, siamo isole unite da ponti.

Il COVID si era portato via quei ponti. Ora dal 4 Maggio riscostruiamo ponti.

Facciamolo con attenzione e rispetto, proteggiamo quei ponti che non diventino fonte di trasmissione e contagio. Se permetteremo al virus di attraversarli saremo costretti ad abbatterli di nuovo e nessuno di noi lo vuole.

Proteggiamo i ponti… io proteggo te e tu proteggi me.

3 di Maggio …. siamo isole unite da ponti …


N.d.R: ricordo la mail a disposizione della compagnia per dubbi, chiarimenti riguardo il mondo "COVID": compagniadeldiario@gmail.com

2 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

L’ETICA DEL DOLORE

Ieri mi sono imbattuto in una lettera pubblicata su un giornale piemontese (Quotidiano Piemontese - edizione online 1 Maggio 2020) scritta da una sedicente operatrice sanitaria. Ovviamente l’identità non veniva svelata dal giornale.

L’operatrice (presentata come infermiera) racconta con termini duri, anche scurrili e assolutamente impietosi, la condizione e la gestione di malati COVID negli ospedali.

Una lettera carica di rancore e diretta contro chi pensa, dal 4 Maggio in poi, di tornare alla libertà.

Capisco lo stato d’animo in cui è stata scritta.

È lo stato d’animo di chi ha combattuto sin dall’inizio un nemico sconosciuto, soverchiante le forze a disposizione per combatterlo.

È lo stato d’animo di chi non è stato protetto, di chi ha avuto paura di contagiarsi e ammalarsi.

È lo stato d’animo di chi non ha più avuto ferie, riposi. Di chi si è visto cancellare con un colpo di spugna tutti i diritti contrattuali in termini di orario lavorativo e recuperi.

Ma.

Ma prima di scrivere, che sia un post o a maggior ragione una lettera ad un giornale, dobbiamo avere ben chiara la responsabilità che abbiamo.

Siamo operatori sanitari, le nostre parole hanno un peso non indifferente.

Chi ha scritto questa lettera con toni duri, quasi minacciosi, ha dimenticato per strada etica e deontologia.

Perché un discorso era avvertire e informare sui rischi di ammalarsi di COVID, un’altra è terrorizzare chi dovesse correre il rischio di ammalarsi. Un terrore che potrebbe portare qualcuno a ritardare cure e/o ospedalizzazione.

Una lettera irricevibile per i toni ed il messaggio, di dolore senza speranza, che porta con sé.

Su queste pagine tutti noi della compagnia del diario stiamo faticosamente cercando da mesi di raccontare e condividere la storia del COVID ma sempre, spero, con una prospettiva costruttiva, una luce anche nei momenti più bui.

Visto il numero di condivisioni altissimo dell’articolo in questione voglio affrontarne con voi alcuni passi e ridimensionarne la drammatica visione.

Lo faccio perché chi si ammalerà non dovrà avere terrore dell’ospedale, dovrà al contrario sapere che non dimenticheremo mai l’umanità e che per quanto dura saremo li a combattere con voi.

Ecco alcuni passaggi della famosa lettera:

<< i pazienti arrivano, vengono trasferiti dal letto alla barella, spogliati come vermi, vengono bucati sulle braccia se già non hanno un accesso venoso funzionante (raramente, per fortuna, perché ci pensano già in pronto soccorso), gli vengono applicati degli elettrodi sul petto, una specie di pinza su un dito, il saturimetro, e attaccati a un monitor che suona con una spia fastidiosa ogni volta che qualcosa non va>>.

Vedete come le cose si possono raccontare in diversi modi? Era necessario parlare di “vermi”? o descrivere il semplice accesso venoso (quello che fate per un banale prelievo) come se fosse un atto di estrema invasività?

<<… il monitor suona … se il loro corpo sta andando a p*****e >> (gli asterischi li ho messi io). Un operatore sanitario NON può esprimersi così.

<<A proposito di parti basse… i pazienti vengono cateterizzati … perché medici e infermieri hanno bisogno di sapere esattamente quanta pipì fanno e non si possono preoccupare (ANCHE) del fatto che la loro vescica esploda letteralmente da un momento all’altro >> nuovamente un modo di esprimersi volgare e non giustificabile.

Nell’articolo, non lo riporto ma potete leggerlo direttamente, viene fatta una descrizione terroristica del casco c-PAP che si usa per le ventilazioni con affermazioni peraltro scorrette e imprecise.

Volendo proseguire la lettera è un elenco interminabile di torture che nemmeno Tomas de Torquemada (primo grande inquisitore spagnolo) avrebbe potuto immaginare.

Noi medici e infermieri dobbiamo essere guide, dobbiamo essere lo sguardo amico, dobbiamo essere il faro nel buio.

Dobbiamo saperci fare carico del peso di queste giornate e non riversarlo, come fa la presunta collega infermiera, su chi è fuori.

La differenza tra ESSERE medico o infermiere e FARE il medico o l’infermiere è tutta qui.

Probabilmente chi ha scritto questa lettera dovrebbe fare un lavoro introspettivo e chiedersi se ha fatto la scelta giusta nella vita quando ha deciso di dedicarsi alla cura del prossimo.

Lo dico senza acredine ma con la convinzione che etica e deontologia non possano essere dimenticate anche (ma forse soprattutto) in questi momenti difficili.

Anche medici e infermieri sono essere umani, hanno diritto a “crollare” sotto il peso di questo tsunami. Esistono ormai in quasi tutte le aziende gruppi di supporto.

Si chiede aiuto ai colleghi (noi a Vercelli ci siamo organizzati sin dall’inizio), si parla, ci si sfoga tra di noi, magari si scrive un diario. Ma mai e poi mai dobbiamo permettere al nostro dolore e fatica di riversarsi su chi è fuori e non sta soffrendo meno di noi. Su chi ha perso il lavoro, su chi rischia di non aprire più un negozio, un ristorante, di non aver più soldi per mantenere una famiglia.

Allora andiamo tutti avanti insieme.

Leggete pure l’articolo in questione ma sappiate che non è così.

Che abbiamo saputo mantenere, seppur a caro prezzo, umanità. Che seppur mascherati i nostri occhi parlano. Che ci sono colleghi nelle aree COVID che si prendono cura dell’aspetto psicologico (penso ad esempio al lavoro della collega Ferraris Silvia che affianca i tanti colleghi in prima linea).

Se doveste entrare in ospedale non sarete soli. Ci siamo noi. E se sarà dura (perché non posso raccontare la favola che sarà una passeggiata), sarà qualcosa che affronteremo insieme.

Lo può raccontare e testimoniare (come già accaduto anche su queste pagine) chi nella compagnia del diario ha già vissuto questa brutta esperienza.

2 di Maggio …. Forse l’etica è una scienza scomparsa dal mondo intero. Non fa niente, dovremo inventarla un’altra volta … (Jorge Louis Borges).

1° Maggio a.d.c. (Anno del Corona)

Caro Diario,

su queste pagine abbiamo già ospitato la voce e la narrazione di chi soccorre (7 Aprile) e di chi ha vissuto l’ospedale al tempo del COVID come paziente (16 Aprile).

Oggi ospitiamo il racconto di un lettore della compagnia del Diario che, rispettando le sue volontà, resterà anonimo. È il racconto di uno scampolo di vita “normale” ai tempi del Coronavirus.

Perché la via per uscire da questo tunnel è cercare anche la normalità dove sembra impossibile trovarla.

LA SCIENZA DELLA SPESA (al tempo del COVID)

<< Prima del terremoto era un momento piacevole.

Io e mio marito siamo una coppia di pensionati, salute discreta, vita tranquilla. Un po’ banale, magari, ma serena e noi ci accontentiamo così.

Siamo sempre insieme, anche la spesa la facciamo insieme ed è un momento piacevole.

Ci piace girare per supermercati, guardare, fare confronti, scegliere. Qui compriamo certe cose, là altre, abbiamo i nostri giri. E poi ci sono le offerte speciali: vuoi mettere il piacere di sfruttare al meglio tutti i prendi tre e paghi due. È come per qualcuno vedere le proprie azioni salire in borsa!

Poi c’è la spesa per i pranzi con gli ospiti, i figli, i parenti, gli amici che ci vengono a trovare. Allora la goduria è doppia.

Si studia il menù e si va alla ricerca degli ingredienti migliori. Si passano in rassegna gli scaffali alla ricerca di qualche idea diversa dal solito. Si scoprono nuove possibilità.

E si torna a casa sempre soddisfatti: che bella mattinata abbiamo passato!

Così era, fino all’inizio di marzo. Poi è successo il terremoto, è scoppiata la guerra. È cominciato l’incubo.

E anche la spesa è diventata un incubo.

Tanto per cominciare, uno solo può uscire. E qui già siamo andati in crisi: era così bello andare insieme! Chi ci va ora? Io, dice stoicamente mio marito, per puro spirito cavalleresco, ma so quanto gli pesa perché lui detesta fare la spesa da solo. Quando raramente gli capita, magari perché io non sto bene, va in tilt, non sa decidere, ogni due minuti mi telefona per chiedere se questo o quello va bene.

Allora abbiamo deciso di affrontare scientificamente il problema. Dovevamo organizzarci bene per ridurre al minimo il pericolo.

Per prima cosa abbiamo scelto il supermercato, uno solo per tutta la spesa, rifornimento per una settimana minimo, meglio per due, se possibile. Stabilire giorno e ora. Evitare il fine settimana. Per l’ora abbiamo guardato sul sito del supermercato prescelto il diagramma di affluenza secondo l’orario: la mattina presto, all’apertura, è il momento migliore.

E poi importante è la lista che deve essere preparata con cura: scatolame, evitare prodotti sciolti o facilmente deperibili, una lista chiara e precisa perché sul posto non c’è tempo per guardare le etichette, al massimo un’occhiata veloce alle scadenze, Bisogna fare in fretta perché magari fuori c’è la coda che aspetta e giustamente lasciano entrare pochi per volta.

La sera precedente alla prima uscita era già tutto pronto: lista, guanti usa e getta, mascherina con sacchetto per riporla dopo l’uso (perché data la scarsità si è costretti e riciclarla dopo accurata disinfezione), foglio di carta da forno per coprire la maniglia del carrello (avevamo letto che già in tempi normali è uno degli oggetti più sporchi).

Sveglia per essere sicuri di non perdere l’appuntamento, ma non ce n’era bisogno, un’ora prima eravamo già belli che svegli.

Ultime raccomandazioni da parte mia, gli uomini per certe cose sono così sbadati! Attento a quello, non toccare, togli subito i guanti senza toccare le dita, stai lontano…. “Basta -alla fine ha urlato il pover’uomo- mi fai venire l’angoscia” ed eccolo partire con aria rassegnata, andando incontro al suo destino.

Io, alla finestra, ho aspettato il suo ritorno da quella missione altamente pericolosa e intanto pensavo alle azioni da mettere in atto al suo rientro: dove mettere questo, dove quello, con un dubbio terribile che mi frullava per la testa: le confezioni saranno “pulite”? Con una brillante idea ho parzialmente risolto il problema. In una stanza poco usata ho preparato un tavolo e lì sopra ho messo tutte le confezioni (quelle che non devono andare in frigo), in quarantena anche loro. Quanto dura quella pallottola bitorzoluta di grasso che ci fa tanta paura? Un giorno, una settimana?

Quando ho mandato un WhatsApp a mio nipote per dirgli che avevo messo in quarantena le scatole di tonno mi ha mandato una faccina che si contorceva dalle risate!

Mio marito è tornato altre tre volte a fare la spesa e non è cambiato niente dalla prima volta: io sono sempre apprensiva e lui pare che vada al patibolo. Non vediamo l’ora di poter andare insieme a fare la spesa, forse tra pochi giorni. Speriamo! Staremo sempre attenti perché alla nostra pelle ci teniamo ancora, ma almeno saremo di nuovo insieme. Insieme a condividere tutto, il bello e il brutto.>>

Una storia semplice, di spesa, amore e paure al tempo del COVID.

1 di Maggio …. Tutti in fila con il carrello ….

N.d.R.: Ho pensato negli ultimi giorni che ognuno di noi ha tante domande sul COVID e non sempre ha gli strumenti per cercare risposte nella vastità di informazioni caotiche di cui il web è inondato. Impossibile affrontare tutto sulle pagine del diario o rispondere a tutti nei brevi commenti.

Ecco perché oggi nasce l’indirizzo mail:

--> compagniadeldiario@gmail.com.

La casella rimarrà attiva sino a fine emergenza COVID, sino a quando torneremo ad una sostanziale normalità. Cercherò di rispondere a dubbi specifici nei limiti delle mie conoscenze e del tempo disponibile (cercherò di rispondere a tutti ma perdonate eventuali ritardi), ben sapendo (e deve essere chiaro) che nessuno di noi, io men che meno, può avere la presunzione di essere depositario di una verità assoluta. I miei saranno consigli, suggerimenti, risposte sincere basate su quanto noto e condiviso dalla comunità scientifica al momento in cui viene posto il quesito.


30 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

<< seconda stella a destra, questo è il cammino, poi dritto fino al mattino. Poi la strada la trovi da te. Porta all’isola che non c’è>> (Edoardo Bennato)

LA PAGINA CHE NON C’È

Avevo pensato per il 4 Maggio una bella pagina, solare, colorata, ricca di speranza, di vita.

Erano giorni che nella mente la preparavo.

Era un edificio che lentamente andavo costruendo a partire dalle fondamenta.

Immaginavo porte, finestre, impianti. Vedevo la vita riempire quella casa.

Luci accendersi, acqua scorrere nei tubi, un soffio d’aria attraversare i filtri del condizionatore.

Quei piccoli scricchiolii impercettibili dei muri, dei legni. Il mormorio delle case “viventi”.

Immagini, suggestioni e pensieri.

Era, doveva essere, la pagina del primo giorno di semi-libertà.

Così non so se andrà.

Perché nelle ultime 48 ore notizie discordanti girano sul web in attesa di documenti ufficiali. Da una parte la Regione sembra che apra in parte, dall’altra l’assessore alla salute afferma in un’intervista che fosse per lui così non sarebbe, almeno non subito.

Lo scavo di terra che doveva accogliere la gettata delle fondamenta resta al momento vuoto. Deserto.

Un buco, nel cuore.

Una pagina del diario che forse non ci sarà.

Cosa è successo?

È successo che il Piemonte è la regione d’Italia che è andata peggio.

E quando uno studente non studia, sa di non aver studiato, non può aspettarsi altro.

Siamo bocciati. O nella migliore delle ipotesi, rimandati.

Abbiamo bivaccato per anni tra deficit di bilancio, piani di rientro e “razionalizzazioni”.

Che bella parola: RAZIONALIZZARE.

Non tagliare, impoverire, indebolire, sottrarre. No, noi in Piemonte abbiamo RAZIONALIZZATO.

E siamo stati bravi.

Sorridevamo a vedere i 14 laboratori avanzati del Veneto. Noi potevamo fare lo stesso con 2. Parsimoniosi.

Sorridevamo a vedere la pletora di posti di terapia intensiva delle altre regioni. Noi potevamo cavarcela con uno dei numeri più bassi in Italia di tali posti letto. Noi eravamo più bravi.

Sorridevamo a vedere gli organici medici e infermieristici di altri. Noi col piano di rientro abbiamo bloccato concorsi per anni. Noi potevamo fare lo stesso degli altri anche senza assumere.

E poi abbiamo inventato le reti.

Non voglio essere frainteso. Fare “rete” vuol dire creare un sistema regionale di specialisti che si parlino, comunichino, scambino dati e gestiscano le diverse complessità. Questa è la “rete” che fa bene! La rete che non fa bene è quella che porta invece a tagliare reparti e servizi non per inutilità, ma per necessità semplice e pura di tagliare costi (basti pensare ai tagli della rete oncologica).

Questa è stata la nostra RAZIONALIZZAZIONE: abbiamo tagliato, risparmiato, indebolito.

La gestione della medicina di territorio è stata accantonata per anni e anni. Non c’erano i soldi. E non si risponda, come si fa in questi casi a volte, che però il fondo sanitario è stato incrementato. Certo, è vero. Peccato resti una delle spese sanitarie in rapporto al PIL più basse d’Europa e poi manco è chiaro dove tutte le risorse vadano a finire.

Proviamo a pensare di avere un bilancio familiare di 600 euro a mese e contemporaneamente avere spese fisse per 800 euro. Immaginiamo ora che il nostro datore di lavoro, con orgoglio, ci informi che negli ultimi anni ci ha aumentato lo stipendio passando progressivamente da 600 a 615 euro. Risulta evidente che continuiamo a non essere in grado di pagare le spese minime.

Non si è avuto coraggio.

Coraggio di riformare il SSN, di creare una vera integrazione tra ospedale e territorio che continuano ad essere mondi sostanzialmente separati.

In anni ormai di esperienza nel direttivo dell’Ordine dei Medici ho imparato a osservare i problemi dai due punti di vista. Sono sicuro che tutti noi medici vorremmo un sistema integrato per parlare tutti la stessa lingua, avere procedure simili.

Se ciò fosse avvenuto, se la prima linea che doveva fronteggiare il COVID avesse avuto organizzazione, risorse, DPI, protocolli forse l’onda non si sarebbe schiantata tutta sugli ospedali. Se avessimo potuto isolare subito i contagiati, i malati. Se avessimo avuto tamponi e laboratori per farlo.

Se avessimo… oggi non sarei qui, di fronte ad uno schermo, ad osservare in silenzio il mondo fuori ed a chiedermi se devo cancellare una pagina quasi già scritta.

4 Maggio: è il giorno in cui vorrei fare la mia “prima cosa bella” come scrivevo il 27 Aprile. Per me la prima cosa bella sarebbe rivedere i miei genitori dopo oltre due mesi, e farlo, con le dovute precauzioni, con i miei figli.

Siamo bloccati, almeno sino al momento attuale in cui sto scrivendo questa pagina, in attesa di notizie definitive e ufficiali.

Ci sono famiglie che cominciano a non avere di che vivere, ci sono persone che sono allo stremo, psicologicamente, e non sappiamo chi ringraziare. Sappiamo che da altre parti le cose sono andate meglio. Il tempo e altri diranno perché.

In due mesi ho sempre misurato le parole, pensato e ripensato prima di scrivere.

Sentivo la responsabilità di passare messaggi positivi.

Oggi, mi perdonerà la Compagnia del Diario, un velo di tristezza.

Passerà. Questi due mesi ci hanno visto piangere, sorridere, arrabbiarci. Certo non sono stati avari di emozioni.

Qualunque sia l’emozione della giornata ricordiamoci sempre che ognuno di noi può essere, se vuole, migliore di chi ci ha messo in questa condizione, dobbiamo avere la forza di dimostrarlo. Mettendo tutti insieme una pezza a questa società ammaccata. Con i nostri comportamenti e con il senso di comunità: proteggerci a vicenda.

Ci prendiamo per mano tutti e proseguiamo il cammino.

30 di Aprile... Verso l’isola che (forse) non c’è…


29 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

CIO’ CHE DI BUONO C’E’ (una riflessione personale)

Ho scritto altre volte pagine difficili del diario.

Oggi tento la scrittura di un’altra pagina complessa nella speranza non venga fraintesa.

La crisi COVID ha toccato nel profondo le coscienze di molti.

Il virus ha portato sofferenza, dolore. Alcuni hanno perso persone care, amici, parenti.

Alcuni hanno sofferto e soffriranno la crisi economica.

Alcuni forse perderanno il lavoro.

La prima reazione, umana, è quella di cercare di dimenticare le brutture di questi mesi.

Buttare via tutto. Resettare la mente come se tutto questo non fosse mai accaduto.

Eppure.

Eppure, per quanto mi riguarda, non posso non pensare che da questa crisi ho qualcosa da imparare, che qualcosa questa crisi mi ha insegnato, qualcosa che, se sarò bravo ad apprendere la lezione, potrebbe anche migliorare la mia vita futura.

Credo che se non vogliamo rendere vano tutto questo dolore dobbiamo essere anche in grado di separare il male che ha portato da ciò che di positivo possiamo imparare.

Non che il COVID abbia portato bene. Sia chiaro e senza alcun dubbio.

Ma l’arrivo di questo tornado ha scompigliato molte nostre certezze, abitudini, consuetudini.

Mi è capitato spesso, nella vita, di considerarmi come un treno destinato a correre su binari definiti.

Nella vita abbiamo fatto scelte che hanno avuto conseguenze. Abbiamo intrapreso percorsi che ad un certo punto diventano, o crediamo diventino, binari.

Ed eravamo convinti, io ero convinto, che nulla e nessuno, nessuna forza della natura, potesse ormai farci deviare da quei binari.

Possiamo chiamarlo destino, forse semplicemente senso del dovere o forse senso del “ciò che gli altri si aspettano che io faccia o che io sia”.

Poi un giorno arriva lui.

I confini si chiudono, le certezze crollano.

Ciò che sino a due giorni prima sembrava una realtà solida e consolidata fatta di regole, calendari, obblighi della vita di società, impegni istituzionali, si è sciolto come neve al sole.

Sino a pochi giorni prima intensi lavori di preparazione per congressi ed elezioni di società scientifiche.

Sino a pochi giorni prima Consigli dell’ordine cui partecipare da incastrare con maestria tra riunioni del direttivo dell’associazione UPOALUMNI.

Calendari fitti di turni, visite, riunioni, incontri. Un puzzle giornaliero calcolato al centesimo di secondo su almeno 12 ore giornaliere impegnate.

Poi d’un tratto lui.

E il calendario in pochi minuti si svuota. Tutto scompare. Sembrava impossibile. Un colpo di spugna.

In 24 ore su quel calendario restano solo i turni ospedalieri con nuove voci mai viste prima (interdivisionale, COVID, RIA, ecc..). Tutto il resto sparisce.

All’improvviso mi ritrovo a casa a ore impensate a veder crescere i miei figli. Condividere con loro spazi mai condivisi prima.

Mi ritrovo ad avere il tempo di pensare, riflettere, leggere.

Ritrovo il tempo di respirare. Libero di respirare nonostante le maschere ed i visori.

Ne parlavo con una collega e cara amica qualche mattina fa in ospedale in occasione di un cambio guardia.

Avevo bisogno del COVID per capire ciò che di importante veramente avevo nella vita? Delle piccole cose che le danno colore e sapore? Avevo bisogno di LUI per avere il coraggio di dire qualche no e riprendere il controllo della mia vita e della strada da percorrere? Ci voleva un “terremoto” per capire che da quei binari possiamo uscire quando vogliamo se sappiamo seguire il cuore?

Provenendo da un mondo pre-COVID decisamente individualistico solo l’isolamento ha saputo mostrarci quanto fosse invece importante il contatto, la condivisione, l’unione di intenti.

Sarebbe mai stato pensabile un diario condiviso come questo qualche mese fa? Eravamo liberi senza la percezione di esserlo. Ora non siamo liberi ma stiamo lottando per esserlo e sapendo quanto questo traguardo sarà speciale.

Certo tutti corriamo su binari, ma con alcune differenze.

Alcuni treni sono ad Alta velocità, quella che attraverso il finestrino ti mostra un paesaggio sfuocato, altri treni sono “accelerati” e dal finestrino è possibile godere il paesaggio.

Uscire dai binari è utile ogni tanto per chi come me correva tanto, forse troppo. Non posso non pensare allo stesso tempo che invece per qualcuno, molti, uscire da quei binari è stato un deragliamento vero e proprio.

Qualcuno è stato buttato a terra, qualcuno in quel deragliamento ha perso molto, e forse oggi sogna di poter tornare su quei binari che sapevano di tranquillità e sicurezza.

L’augurio migliore che posso fare allora è che ognuno di noi ritrovi, gradualmente, i suoi binari e, nel caso, si ricordi ogni tanto come uscirne per fare una piccola scampagnata.

29 di Aprile… Come treni che non hanno binari ma ali di carta … (da Nessuno vuole essere Robin – Cesare Cremonini)


28 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

N.d.R: prima della pagina odierna permettetemi un ringraziamento a tutta la Compagnia del Diario.

Al quesito di ieri “la prima cosa bella” hanno risposto dando il loro contributo di sogni, desideri e speranze più di 100 (!) “condomini” della compagnia, trasformando quella pagina in una pagina veramente corale. Grazie a tutti e a tutti l’augurio di poter realizzare il proprio desiderio.

Ora una pagina un po’ “tecnica”.

GIOCARE A RISIKO

Pausa pranzo.

Abbiamo passato la metà del mese di aprile, ci stiamo avvicinando a maggio. Quanto è vicino maggio.

Sono saltate tutte le consuetudini.

Non ci sono più punti di riferimento.

Appoggiato sul davanzale dello studio medici, protetto da un foglio di carta usa e getta, osservo il mondo fuori.

In altri tempi questa stanza, ora avvolta dal silenzio, sarebbe stata rumorosa, molto rumorosa.

In queste giornate eravamo soliti riunirci con l’equipe e discutere, calendario alla mano, di servizi, impegni, turni e guardie.

Un gioco di incastri, relazioni diplomatiche.

La scrivania, spostato il computer, si prestava come base per il grande “Risiko”.

Ognuno disponeva i suoi carri armati, aerei e navi. Ognuno metteva sul tavolo desideri, progetti, speranze.

Si discuteva, ci si accapigliava bonariamente, si faceva la conta delle ore, delle guardie.

Era il momento delle rivendicazioni, delle promesse, degli scambi sottobanco, del mercato “nero” dei turni meno ambiti.

Una sorta di “Borsa” anarchica, nessuna Consob a controllarne le operazioni.

Si seguivano quotazioni improvvisate secondo gli umori del momento: un sabato giorno valeva due guardie notturne feriali? Forse oggi, ma domani? E quanto valeva una domenica notte?

Si tornava bambini, all’epoca del mitico scambio delle figurine di calcio dell’album Panini.

La stanza si riempiva di voci alte e voci basse. Alcuni passeggiavano nervosi in cerchio come animali in gabbia, altri tamburellavano le dita seguendo ritmi imprevedibili.

I sospiri di rassegnazione si univano agli sbuffi insofferenti.

Poi, come tutto era iniziato, finiva.

Il fischio di un arbitro immaginario sanciva la fine della tenzone.

Si ritiravano le truppe, ognuno contava i suoi feriti. Se eravamo stati bravi (e la maggior parte delle volte era così) si usciva da quella stanza senza vincitori ne vinti. Ognuno di noi aveva dovuto lasciare qualcosa sul tavolo ma aveva anche preso qualcosa.

È il gioco della vita. Ed ai tempi delle innumerevoli riunioni operative per l’emergenza COVID tutto questo torna alla mente.

Nel Risiko della vita la strategia migliore (come mi insegnarono agli inizi della mia avventura come segretario locale dell’associazione medici ospedalieri) è quella che viene chiamata “Win-win” (io vinco-tu vinci).

A qualsiasi tavolo di negoziazione vincere troppo non è la scelta migliore. Se oggi io vinco tutto e mi alzo dal tavolo con la controparte ferita e umiliata questa avrà un naturale senso di rivalsa e rivincita nei miei confronti che la porterà ad un successivo incontro ad avere un approccio aggressivo.

Se al primo tavolo, dunque, adottiamo la tecnica “Win-lose” (io vinco, tu perdi) al tavolo successivo, preclusa a priori qualsiasi forma di comunicazione sincera, la cosa più probabile è che si arrivi al “Lose-lose” (io perdo, tu perdi).

Al contrario se dal primo tavolo ci alziamo entrambi con la sensazione/percezione di aver portato a casa qualcosa (non la vittoria ideale ma un compromesso), al prossimo tavolo saremo ancora disposti a guardarci negli occhi, confrontarci e trovare un terreno comune di dialogo.

Ecco perché alla fine si trovava sempre la quadra in quelle nostre riunioni.

Questo accadeva in questa stanza prima.

Prima dell’onda che si è portata via tutto.

Ora, nel silenzio surreale dei corridoi vuoti, spostando lo sguardo dalla finestra verso il centro della stanza, osservo la scrivania vuota.

Non ci sono ferie su cui discutere, non ci sono congressi, corsi. Non ci sono quasi sabati e domeniche, festivi.

Ora si discute di turni COVID e NON-COVID. Di guardie inter-divisionali.

E la nostalgia è inevitabile.

In attesa di riparlare di congressi oggi il Risiko lo giochiamo su altri tavoli.

Sui tavoli per discutere di dispositivi di protezione, di protocolli terapeutici e diagnostici.

Tra colleghi di tutte le discipline, tra alti e bassi, tra sbuffi e sospiri, credo siamo riusciti ad applicare il “Win-win”. Sarà dura per tutti ma nessuno si tira indietro. Abbiamo accettato e ancora accetteremo molti compromessi perché è quello che dobbiamo fare per onorare la professione di medico e il nostro dovere verso la società (lo stesso vale per i colleghi infermieri).

Chi, perdonami caro diario, non ha ben compreso le regole del gioco sono invece alcune istituzioni.

Chi non cerca il dialogo, chi ci considera soldatini muti.

Quando sarà finito tutto, a bocce ferme, vedremo chi ha giocato in modalità “Win-lose”. Perché la sensazione, vista la curva di contagi e mortalità nel Nord Italia, è che proprio la parte d’Italia che si considerava più avanzata abbia giocato, a conti fatti, con una strategia che ha portato ad un risultato “Lose-lose”. Abbiamo perso tutti.

Non abbiamo contenuto i contagi. Non avevamo abbastanza posti di terapia intensiva (questa la grande differenza con la Germania che ha numeri decisamente migliori dei nostri). Non avevamo abbastanza laboratori (Piemonte). Non avevamo fatto scorta di DPI e di tamponi.

Dobbiamo cambiare regime, recuperare umiltà (non eravamo i migliori come pensavamo), guardare avanti, e riprendere a giocare per vincere. Si può fare se sapremo imparare dagli errori.

E se le cose andranno bene forse presto in questa stanza torneranno a sparare i cannoni per guardie, riposi e ferie.

28 di Aprile... Spostiamo i carrarmati in Kamchatka (come ha fatto chiunque abbia giocato a Risiko almeno una volta)...


27 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LA PRIMA COSA BELLA

Giornata di recupero, l’altro giorno.

Pulizie di primavera dentro casa e dentro noi stessi.

Il corona è entrato nelle nostre vite come un tornado che ha trascinato con sé polvere, detriti, foglie secche.

Ha sporcato tutto.

È ora di armarsi di scopa e paletta e cominciare, in vista dell’alta pressione in arrivo, a sistemare le nostre case fisiche e quelle spirituali.

È ora di pensare al dopo.

Avevamo già parlato della necessità di fare progetti, guardare oltre, essere “visionari” come ben sottolinea l’amico Maurizio Audone.

A fianco dei progetti c’è però qualcosa di più piccolo, banale se vogliamo, eppure sarà la prima cosa.

La prima cosa bella che faremo.

Ci abbiamo mai pensato?

Quando Conte o Cirio diranno << da domani si esce >>, quando il divieto di muoversi tra i comuni cadrà, quando saremo veramente liberi, cosa faremo? Quale sarà il primo gesto di libertà? Quale la prima cosa bella a cui penseremo?

Leggendo i post di molti amici o di semplici conoscenti, in questi giorni ho identificato alcune categorie semiserie che mi diverto a condividere con la compagnia del diario.

IL GODERECCIO

Più di due mesi di reclusione. Dopo i primi tentativi di cucina sull’onda di Masterchef ha optato per le consegne a domicilio ma l’impiattamento (per cause tecniche legate al trasporto) lo ha sempre deluso. Non vede l’ora di poter emulare lo chef Borghese. Ha già preparato il taccuino. Due minuti dopo la cessazione della zona rossa e quando consentiranno la ristorazione sarà al tavolo di un ristorante a valutare menù, location, servizio e costo. Ordinerà un menù di 8 portate che digerirà nella successiva settimana. Altamente consigliato successivo controllo quadro lipidico ed enzimi epatici.

IL FAMILIARE

La reclusione gli ha impedito contatti con genitori, figli, amante. Ha l’auto pronta, già accesa 24 ore su 24 per non perdere tempo. Davanti al cancello sventola la bandiera del “via” e ha installato un semaforo sul modello della Formula 1 collegato con la centrale operativa dell’Unità di Crisi. Allo scattare del verde bruciando sensi unici, semafori, rotonde e precedenze sarà a casa del familiare prescelto prima di tutti. Arrivato si renderà conto di non sapere che dire o raccontare dopo due mesi di clausura e tornerà a casa. Consigliata assicurazione auto di tipo “casco” e penna per firmare le multe.

IL VIAGGIATORE

Al viaggiatore non interessa correre da qualcuno o mescolarsi alla folla. Il viaggiatore è un eremita cui piace immergersi solitario nell’immensità della natura. Attende da due mesi con gli scarponi da neve indossati, occhiali da montagna (tanto proteggono anche dal corona) e bastoni. Ha indossato tutto il primo di marzo e non si è più cambiato. A maggio (o giugno), quando si troverà in montagna con clima estivo, per partito preso terrà tutto indosso. Consigliata flebo idratante per il colpo di calore garantito.

IL PASSIONALE

Chiuso nell’isolamento e nella quarantena con la sola compagnia di un vecchio pupazzo d’infanzia sente tremendamente la mancanza di contatto fisico. Da due mesi si esercita per essere pronto. Alla mezzanotte del primo giorno di libertà scenderà in strada e abbraccerà chiunque gli capiti a tiro: la signora anziana a passeggio col cane (abbraccerà anche il cane), il carabiniere di pattuglia (con conseguente denuncia per sospetta aggressione a pubblico ufficiale), il “godereccio” che torna a casa con sacchetto di avanzi del primo pasto di 8 portate (sacchetto che verrà inglobato nell’abbraccio). Consigliata terapia fisiatrica decontratturante.

IL COMPLOTTISTA

Ha letto post, sa tutto del virus creato in laboratorio, ha la profonda convinzione che l’isolamento di questi due mesi sia un artificio dei governi per controllare le masse. Non ci è cascato prima (ha continuato a uscire in barba ai decreti), non ci casca ora che danno il via libera. Quando tutti usciranno “a riveder le stelle” lui, furbo, si chiuderà in casa, perché ad andare controcorrente non si sbaglia mai. Consigliata iscrizione all’associazione “Terra Piatta”.

LO SCAPIGLIATO

Esteta del capello. Ha subito l’affronto della “ricrescita”. Ha perso il controllo della criniera. Non esce nemmeno sul balcone per paura di essere visto e se costretto indossa un sombrero messicano. Ha già prenotato il barbiere/parrucchiera e pagato in anticipo per sicurezza.

E voi? Quale sarà, seriamente, la prima “cosa bella” che farete?

La prima cosa bella che vorrei fare io è ripartire con le due conferenze “librarie” che avrei dovuto tenere nel mese di aprile se non fosse arrivato il corona.

Prima però un piccolo ma lunghissimo caffè al bar in compagnia di un amico speciale. Un semplice, indimenticabile, caffè.

Ricordando sempre di proteggere noi e proteggere gli altri. Sempre.

27 di Aprile... La prima uscita non si scorda mai...


26 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LA “FONTE” PERDUTA

Più di un mese fa (17 Marzo) scrissi una pagina del Diario dedicata alle “Bufale”.

A distanza di tempo ci ritroviamo in questi giorni ancora accerchiati sui social e sui media in generale da una moltitudine di informazioni caotiche e disordinate.

<< Dicono che la terapia antivirale è da iniziare subito >>

<<La positività può durare più di 2 settimane >>

<< Ho letto di un farmaco giapponese che risolve tutto>>

<< L’idrossiclorochina è un farmaco importante>>

<< Facciamo tutti i sierologici così sapremo se siamo immuni >>

<<Mi hanno inoltrato un “WhatsApp” che spiega come il virus viene diffuso dalle antenne 5G>>

Qualcosa è vero, altro no. Come orientarsi in questa giungla?

Tante domande, affermazioni, certezze cui rispondo sempre allo stesso modo:

<< La fonte?>>

Un post riflessivo oggi. Per ragionare insieme sul tempo che viviamo, la gestione delle informazioni e le ripercussioni in epoca COVID.

Viviamo nell’epoca dell’ipertrofia delle informazioni.

Ci siamo lasciati alle spalle il sapere chiuso, abbaziale, tipico del medioevo. Un sapere per pochi, chiuso in torri di pietra, protetto in biblioteche inaccessibili ben rappresentate nel capolavoro di Umberto Eco “Il nome della Rosa”.

La successiva invenzione della stampa tra il secolo XV e XVI permise la diffusione del sapere. Dall’ambiente nobile ed ecclesiastico si passò alla ricca borghesia, i mercanti. Sapere a prezzi alti ma accessibili ad un pubblico più ampio.

Sfogliando alcune opere di inizio ‘500 (testi che trattano argomenti diversi dalle scienze naturali, alla teologia, alla filosofia, alla politica) trovo una costante: in tutti quasi ossessiva è la citazione delle fonti.

Tizio racconta, Caio descrive, Sempronio afferma.

Dai grandi classici tradotti e stampati alle prime opere originali rinascimentali per avere credito era necessario citare, riportare le fonti, dimostrare la fondatezza delle proprie tesi.

L’illuminismo e il metodo scientifico successivamente nel XVIII secolo crearono un solco tra ciò che è “opinione” e ciò che è “scientificamente” e razionalmente dimostrabile.

Nell’ottocento l’invenzione della carta ricavata dalla cellulosa del legno consentì l’abbattimento dei prezzi, i libri finalmente potevano divenire un fenomeno di massa. Cultura per tutti, a prezzi bassi.

Tutti potevano comprare un libro. Pochi, ancora, potevano scriverlo.

Per scrivere un libro, trovare un editore, trovare il finanziamento per stamparlo, occorreva essere CREDIBILI.

Ed eccoci nell’era del Word-Wide-Web.

Crei una pagina, crei un blog, crei una catena di WhatsApp gratis o quasi.

Chiunque diventa “editore” di sé stesso (in verità anche io sono editore del mio diario ma fingo di non accorgermene). E sempre più spesso ognuno diventa fonte di sé stesso.

È la scienza “autoreferenziale” degli anni 2000.

Nell’anno 2020, l’anno del corona, tutto questo si amplifica.

A noi l’arduo compito di non diventare cassa di risonanza di notizie non verificate.

Il tasto “INOLTRA” presente su WhatsApp ed in molte altre applicazioni è lo strumento più diabolico che potevano pensare. Anche Zuckerberg (fondatore di Facebook e attuale proprietario di WhatsApp) ne ha preso coscienza se è vero che a breve introdurrà un limite di massimo 5 inoltri di uno stesso messaggio.

Questo blocco avrà lo scopo nobile di evitare gli inoltri automatici di chi legge solo il titolo, non approfondisce e invia.

Saremo costretti a leggere e, se crediamo alla fine nel messaggio, riscriverlo.

Questo arco di tempo, i minuti per leggere, capire e ricopiare sarà tempo prezioso.

Cerchiamo di farlo ogni volta.

Nell’ultimo mese sul coronavirus gira di tutto, ma veramente di tutto senza alcun filtro.

Chiediamoci sempre di fronte a notizie, di qualsiasi tipo, qual è la fonte?

<< Il 30 Ottobre del 1938 negli Stati Uniti avvenne qualcosa di unico.

La radio annunciò in diretta esplosioni sulla superficie di Marte seguiti da getti di idrogeno diretti verso la Terra. A distanza di pochi minuti gli ascoltatori vennero informati della caduta di un oggetto in una fattoria nei pressi di Grovers Mill nel New Jersey. La telecronaca continuò, e nel terrore generale, venne annunciato il primo contatto con una civiltà aliena e l’inizio di una invasione extraterrestre con disfatta dei primi battaglioni inviati sul posto.

Si creò il panico, il passaparola fatto a voce, al telefono ad amici, colleghi, parenti, diffuse la profonda convinzione che il mondo stava cedendo di fronte agli extraterrestri.

In quelle ore concitate le migliaia di cittadini americani che si fecero cassa di risonanza dell’ondata di panico si mossero come oggi si muove chi inoltra le catene di WhatsApp o Facebook. Non verificarono la fonte.

Sarebbe bastato poco per accorgersi che non si trattava di un notiziario ma di uno sceneggiato radiofonico dedicato al romanzo di fantascienza “La guerra dei Mondi” di Herbert George Wells.

Bastava verificare la fonte.>>

Ricordiamocelo la prossima volta che “inoltriamo”.

Cerchiamo la fonte, cerchiamo verifiche e controlliamo.

Sarà un processo più lento, ma probabilmente salveremo il pianeta da una nuova invasione aliena.

E forse salveremo anche qualche amico o parente, già spossato dall’isolamento, da paure ingiustificate o da speranze destinate a rimanere illusioni

26 di Aprile... Alla ricerca della fonte...


25 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LIBERTÀ

<<Bianco e nero,

Ricordi tremolanti. Lo sfarfallio tipico della pellicola anni ’30-40.

In alcuni tratti i toni sbiaditi, slavati delle prime pellicole a colore.

La voce altisonante caratteristica dei filmati del ventennio, sempre “gloriosa” e stentorea nelle sue affermazioni (oggi ricorda alcune annunciatrici nord-coreane).

Immagini di volti stanchi ma felici. Uomini che marciano in divise non identificabili. Sporchi, dimessi ma ordinati e fieri.

Donne che porgono fiori a uomini con fucili.

Carri armati che sfilano in centro città come una allegra sfilata carnevalesca in una nuvola di cappelli lanciati in aria.

Bambini e uomini in giacca e cravatta, fianco a fianco, a strappare vecchi manifesti della guerra.

Un girotondo di bambini con gli abiti da festa e dei sorrisi di chi conosce il senso della libertà per la prima volta in vita sua>>

I ricordi di un vecchio filmato celebrativo del 25 Aprile tratto dall’archivio dell’Istituto Luce.

Un filmato che devo aver visto qualche anno fa e che ora, per gli strani percorsi che ogni tanto la mente intraprende, ritorna come immagine vivida.

Una storia, la Storia, da vivere con gli occhi, le orecchie e il cuore.

Il 25 Aprile nonostante le tante spaccature di un paese che ancora fatica a trovare una pace interiore era ed è, per noi della generazione dei tempi di pace, un richiamo ad un bene supremo: la libertà.

Caro Diario,

giorno speciale, dunque, oggi.

25 Aprile. E festeggiare la libertà oggi ha un sapore diverso.

Perché non c’è niente come perdere qualcosa per capirne l’importanza.

Le generazioni dei tempi di pace la libertà non l’hanno mai persa. Qualche piccola limitazione oggi quasi irrilevante dopo l’11 settembre, ben diverso da chi doveva nascondersi da rastrellamenti o bombardamenti.

Poi è arrivato il COVID.

Ed una mattina ci siamo svegliati noi, sotto bombardamento.

All’improvviso.

Ci eravamo addormentati liberi, liberi di muoverci, lavorare, prendere un caffè al bar, comprare un giornale, andare a trovare i propri cari, e ci siamo svegliati prigionieri.

Difficile per tutti noi non ricordare l’alba della zona rossa.

Avevamo vissuto la cosa attraverso i telegiornali quando era capitato alla Lombardia, ma non era a casa nostra.

Poi eccoci qui. D’un tratto i confini del nostro stato, confini quasi invalicabili, erano quelli delle mura domestiche, del giardino, della recinzione. Per uscire passaporto, dogana, forze dell’ordine, permessi. Il permesso per uscire da casa propria. Impensabile, inimmaginabile, immagini da futuro distopico possibili sino a 3 mesi fa solo in un libro di fantascienza.

Quella libertà scontata, quasi ignorata ora in poche ore era scomparsa.

Fino a due settimane prima le istituzioni garantivano che no, in Italia non sarebbe successo, non eravamo mica la Cina dopotutto.

Oggi è il 25 aprile. E forse oggi spiegare alle nuove generazioni il senso di festeggiare la libertà è più semplice, ora che sulla loro pelle hanno provato la sensazione di perderla.

Daremo molte cose meno per scontate (si spera).

Il potere di un abbraccio, la forza dell’incontro libero tra uomini, le discussioni animate ad un tavolino di un bar dove, come cantava Gino Paoli, si sognava di cambiare il mondo.

Pian piano riconquisteremo quella libertà.

E forse sapremo apprezzarla di più, giorno per giorno, meno scontata, più preziosa.

Sperando serva a non commettere più vecchi e nuovi errori.

Buon 25 Aprile a tutti, sognando una nuova libertà, anche dal COVID.

25 di Aprile... Eravamo quattro amici al bar...


24 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LO ZEN E L’ARTE DEI PUNTI NERI

Un punto nero.

Un’increspatura nella perfezione del bianco che lo circonda.

Se mi avvicinassi di più probabilmente il punto nero diverrebbe una piccola crepa, o una macchia di un qualche liquido o ancora un piccolo chiodino.

Ma non sono vicino.

Dalla mia posizione, complice occhiali e visiera graffiata dai tanti lavaggi alcolici, resta un punto informe, sfuocato.

Un qualcosa di indefinito che racchiude infinite potenzialità.

Ho perso la percezione del tempo.

Chiuso nello “scafandro” tipico da area COVID, senza orologio, senza telefono, vivo nel presente, istante per istante.

Nemmeno mi sono accorto che, quasi per simpatia, il mio respiro si è sincronizzato con quello del paziente che si trova alla mia destra.

Il suo è un respiro pesante, complesso. Un respiro aiutato dalla c-PAP, una maschera che aiuta il paziente a ridurre il suo sforzo respiratorio evitando, quando possibile, metodi di ventilazione più aggressivi.

La frequenza del respiro del paziente è rapida, troppo per me che saturando bene mi accontenterei di respirare con più tranquillità.

Mi concentro dunque sul respiro e recupero il mio ritmo.

Certo questa azione mi ha definitivamente distratto dal punto nero. Sino a pochi istanti prima era il perno del mio nuovo universo. Ora devo cercare un nuovo centro di gravità.

Per spiegare il motivo della mia apparente inattività, e soprattutto degli esercizi di rilassamento che sto mettendo in atto, bisogna fare un passo indietro.

Abbiamo già visto insieme le complesse procedure di vestizione (“L’abito non fa il monaco, pagina del 16 Marzo).

È evidente che una volta cambiati e posizionati in area “sporca” non si esce sino a quando non si è finito tutto il giro. Uscire vorrebbe dire svestizione e rivestizione con un dispendio di DPI (dispositivi di protezione tutti usa e getta) che non possiamo certo permetterci di questi tempi.

Dunque eccomi qui. Bloccato.

Sono in attesa che arrivi un ecografo dall’altra terapia intensiva. In tempi normali una procedura semplice. In tempi COVID una procedura che richiede sanificazione, protezione, trasporto attraverso percorsi non ordinari.

Il tempo si dilata.

Si resta soli con sé stessi in un mondo ovattato. Fuori dalla stanza il mondo pulito con il quale ora non posso comunicare, pochi metri che sembrano spazi siderali.

Due ventilatori nella stanza, sono loro ora il mio centro di gravità.

Numeri e grafici sui loro monitor: PS, PEEP, volumi inspiratori e respiratori. FiO2.

Allarmi.

Respiri.

Un’altalena di aria in entrata e in uscita, uno spirito vitale che riempie la stanza. E con lo spirito vitale anche lui, il “corona”, trasportato in minuscole goccioline d’acqua nebulizzata, invisibile. Tra me e lui strati di plastica, tessuto, visiera, 2 maschere. Un confine che, quando disponibile e ben piazzato, non può valicare.

Nella stanza una luce che non sa né di giorno né di notte.

Tornano alla mente sensazioni di molti anni fa quando, per gli strani bivi che il destino ti pone di fronte, mi trovai ad attraversare il circolo polare artico.

Quel sole di mezzanotte indefinibile, opaco, quelle ore una uguale all’altra in un flusso continuo di tempo senza più distinzioni in minuti, ore, giorni.

Quelle foto che al rientro mostravi agli amici senza sapere se fossero scattate al mattino, sera, notte.

Quei pasti sempre uguali con sardine distribuite a intervalli di 8 ore circa.

Un universo fuori dal tempo.

Così deve essere l’universo dei due pazienti che dividono la stanza con me in questo momento. Un universo temporaneamente congelato, immobile.

Eppure, pochi metri fuori, il tempo riprende a scorrere, il giorno e la notte ad alternarsi.

<< Forza >> (rivolto a loro pur sapendo che non possono sentirmi) << un respiro dopo l’altro>> a piccoli passi.

Le terapie si affinano, le ventilazioni fanno il loro lavoro. Abbiate fiducia.

Una porta si apre e sento un altro “respiro”, quello della pressione negativa della stanza.

Entra l’ecografo.

Si lavora, sino alla prossima pausa. E quasi attendo di nuovo il momento in cui sarò nuovamente solo, immerso nei respiri, nel silenzio, tra i ventilatori i muri bianchi e i punti neri.

E se qualcuno fosse curioso, alla fine, di sapere cosa fosse quel punto nero? Non lo sapremo mai. L’ho perso, cercato, non più ritrovato, forse è stato solo un sogno di un’istante.

24 di Aprile... Cerco un centro di gravità permanente...


24 Aprile - La Sesia

SARÀ UN MONDO DI TURNI ALTERNATI E MASCHERINE

Il dottor Macciò:“Ondata di ritorno? Nessuno ha indovinato le previsioni”

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23 Aprile (a.d.c. – Anno Del Corona)

ICONOGRAFIA DI UNA PANDEMIA

A differenza di quando scrivo sul mio blog dedicato ai libri, nello scrivere questo diario su Facebook ho dovuto accettare una limitazione che inizialmente sentivo come un peso poi, cammin facendo, quasi una liberazione: l’impossibilità di inserire foto nel testo.

Decisi così di inserire a corredo di ogni post una singola foto che rappresentasse l’argomento trattato.

D’altra parte liberarsi dai vincoli estetici del blog mi consentiva di concentrare tutta l’attenzione mia e del lettore solo sul testo. Impegnativo e forse rischioso in un mondo sempre più “visual”, soprattutto se pensiamo che il social più utilizzato ormai è Instagram e lavora quasi solo su immagini.

Ecco, oggi voglio fare uno strappo alla regola, cara compagnia del diario.

Oggi voglio partire dalle immagini, foto che, per me, rappresentano affreschi di questa era di mezzo e che con la loro forza simbolica rimarranno indelebili nel cuore. Ne ho scelte 5.

E intendo iniziare da una in particolare dalla quale è nata l’idea di questa pagina.

Luce e buio – foto1

Il cielo plumbeo sopra la città illuminata come da 1000 candele. Un silenzio irreale che traspare anche se non udibile. Una lunga scalinata che sale, dolcemente. Marmi lucidi di pioggia cristallina come specchi argentei. In alto un piccolo spiazzo dove la luce, circondata dal buio abbraccio della piazza, resiste come un faro nella tempesta. Ed al centro della luce un uomo, vestito di bianco. Sta parlando con Dio. Parla per tutti noi, ma per la prima volta i “tutti noi” non ci sono. È rimasto lui a tenere la luce. Un’iconica figura di un’epoca in cui il mondo si è chiuso in casa. (Foto 1).

Il riposo del soldato – foto 2

Dagli spazi ampi del Vaticano ci troviamo ora catapultati in uno spazio ristretto, intimo.

Un piccolo angolo di un ospedale qualsiasi. Un paio di occhiali vicino alla tastiera, un computer acceso, atmosfera notturna. Una testa abbassata sulla tastiera stessa. Camice, sovracamice, maschera chirurgica, cuffia, guanti. A destra, in un angolo, il detergente a base alcolica per le mani. Nostro compagno di vita da oltre due mes1. Mani pulite sino a seccarle, spaccarle. Un’infermiera che si accascia dopo un turno estenuante fisicamente e psicologicamente. Manca colore. È il colore che il corona ci ha portato via. È il colore che ci riprenderemo.

Natura – foto 3

Un nastro liquido, trasparente, di un verde che ricorda un’acquamarina. La superficie immobile, congelata. Camminamenti vuoti, abbandonati dall’uomo. Mattoni rossicci scoperti che tentano di specchiarsi. Colori di rosa e arancio a contrastare la sfumatura del canale. Eccoli i colori che avevamo perso. È il mondo senza uomo. Una laguna “da bere”, una Venezia mai vista. È il simbolo del “respiro” del pianeta.

La colonna – foto 4

Chi la può dimenticare?

Una foto (o meglio un fotogramma estratto da un video) presa da un balcone, in bassa risoluzione, un’immagine occasionale di chi, svegliato in piena notte si affaccia e pensa che l’esercito sia venuto a bloccare le strade.

No. Nessun blocco (oltre quelli già in atto).

D’altra parte il nostro anonimo improvvisato cameramen, come nessun altro, avrebbe potuto immaginare una scena del genere. L’esercito che in una nostra città viene di notte a portare via bare, decine e decine di bare. Camion che si portano via da Bergamo un’intera generazione. 70 camion (ma solo 7 “entrati” nel fotogramma).

Il vetro – foto 5

Righe sottili attraversano da sinistra a destra tutta l’immagine, sottili, evanescenti.

Una nebbia avvolge tutto. Avvolge “l’astronauta” in tuta spaziale completa, avvolge un malato attaccato al respiratore. Una nebbia composta di vetro. Vetro che separa il mondo di fuori da quello di dentro. È il simbolo per me dell’isolamento ai tempi del COVID.

Stavo per terminare la pagina, caro diario, ma chiuderla con questo vetro non era il messaggio che volevo dare.

E dunque mi consento una sesta e ultima foto, giuro.

L’arcobaleno – foto 6

Una tempesta di colori, di speranza, di visione oltre l’ostacolo. Un’immagine che rappresenta le decine di migliaia di arcobaleni comparsi su balconi, davanzali e finestre in tutta Italia. Ed una scritta “tutto andrà bene”.

Non andrà (e non è andato) proprio tutto bene, lo sappiamo, ma attendiamo fiduciosi lo stesso la pentola di monete d’oro che ci attende alla fine dell’arcobaleno.

23 di Aprile… Sorridete, guardate l’obiettivo, CLICK !…


22 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

AI REMI

<< Quando su una barca ci sono sette timonieri su otto marinai, la nave affonda >>

(Proverbio cinese)

Caro Diario,

oggi mi scuserai e porterai pazienza perché mi permetto una pagina un po’ polemica.

Su queste pagine abbiamo riso, ci siamo commossi, abbiamo solidarizzato, abbiamo imparato insieme come affrontare questa crisi, l’abbiamo condivisa, abbiamo discusso.

Abbiamo scritto e letto istruzioni.

Poi qualche giorno fa, caro diario, durante una conferenza stampa sento dire da chi dovrebbe rappresentare le istituzioni che “i medici avrebbero remato contro” (NdR senza specificare quali medici e come avrebbero remato contro).

La frase, infelice e penso rimpianta a mente fredda dallo stesso autore, mi ha spinto a ragionare, alla fine di una lunga giornata di lavoro, su chi ha remato a favore e chi contro in questa lunga crisi senza precedenti.

Mi sono così permesso di stilare un elenco (una valutazione assolutamente personale) e che condivido con la compagnia del Diario.

Specifico inoltre che quanto affermato successivamente è riferito alla situazione italiana in generale o regionale storica.

NON ha remato contro:

- Chi come medici e infermieri e OSS ha rinunciato a ferie, riposi, attività privata, pensione (alcuni sono stati bloccati a pensionamento già avviato)

- Chi come medici e infermieri e OSS ha dovuto lavorare a volte con scarse protezioni, protezioni non adeguate o dubbie. Chi di loro si è ammalato (molti) chi addirittura è morto (ad oggi solo il conto dei medici su base nazionale il cui decesso è da ricondurre a COVID dopo contatto lavorativo risale a oltre 120 colleghi). Chi ha dovuto separarsi dalla famiglia dopo esposizioni a rischio sul lavoro.

- Chi come medici e infermieri e OSS malati dopo esposizioni lavorative hanno dovuto lottare per avere un tampone al solo scopo di poter tornare a lavorare appena negativo per dare una mano ai colleghi stanchi.

- Chi ha dovuto chiudere le proprie attività, “tirare la cinghia”. Affrontare un futuro con spese certe e guadagni incerti.

- Chi ha donato migliaia di DPI, chi ha donato anche solo una torta, delle cialde per il caffè per le lunghe notti ospedaliere, chi le pizze.

- Chi ha aiutato gli anziani a fare la spesa o comprare le medicine

- Chi ha rispettato la quarantena rinunciando a vedere genitori e figli.

- Chi come gli insegnanti ha imparato in due settimane a gestire la Scuola 2.0 (quella digitale) bruciando le tappe di un progresso che in tempi normali avrebbe richiesto mesi di apprendimento. Assisto a volte ad alcune lezioni di mia figlia. Prima della lezione spesso l’insegnante chiede ai ragazzi se tutti stanno bene, sento parole di conforto e vicinanza. Momenti per i ragazzi di unione e condivisione fondamentali. Grazie a tutti gli insegnanti che lo stanno facendo in modo encomiabile.

- Chi come L’Esercito Italiano si è fatto carico della distribuzione delle donazioni, dei controlli, del compito difficile e umanamente devastante di trasferire centinaia di bare attraverso l’Italia dalle zone epicentro della crisi.

- Chi ha messo la propria creatività al servizio dell’emergenza (penso alle maschere subacquee riadattate per la ventilazione).

- Chi nelle istituzioni, a diversi livelli si è messo sinceramente a disposizione di chi era in trincea, ne ha ascoltato bisogni e preoccupazioni.

- Chi come gli Agenti di Polizia, Carabinieri, Vigili da giorni è massicciamente impegnato senza sosta sulle strade per far rispettare il divieto di spostamenti.

Ha invece remato contro:

- Chi negli ultimi 15-20 anni in Piemonte (ma il ragionamento vale anche su base nazionale) ha operato tagli di personale, di strutture, di servizi. Chi ci ha portato ad essere una delle regioni italiane con il più basso numero di posti letto di terapia intensiva, chi ci ha portato ad avere 2 laboratori di primo livello contro i 14 del Veneto. Chi ha creato il deficit catastrofico della regione che negli ultimi 15-20 anni ha causato piani di rientro, blocco assunzioni, perdita di personale medico e infermieristico.

- Chi a livello istituzionale ha creato confusione e ha sottovalutato la crisi. Ricordiamo che mentre da un lato il 31 Gennaio il governo deliberava lo stato di emergenza per pandemia, nelle stesse ore il Ministro della Salute ed alcuni virologi in televisione rassicuravano che da noi sarebbe stata solo un’influenza.

- Chi, nonostante il decreto del 31 Gennaio, non si preoccupava di correre sul mercato e pianificare il rifornimento di dispositivi di protezione e di reagenti per tamponi, non si preoccupava di potenziare le terapie intensive, non si preoccupava di organizzare la gestione del territorio. Nessuna programmazione sino allo scoppio della crisi.

- Chi in piena emergenza ha giocato a rimpallare responsabilità sulla carenza dei DPI mentre i lavoratori imparavano a riciclarli contro ogni buon senso non potendo fare altro se non affidarsi al buon cuore di benefattori privati (a chi è in prima linea non interessa certo la caccia alle streghe, interessa averli questi benedetti DPI!).

- Chi come l’apparato burocratico di questo paese non ha saputo adattarsi rapidamente, ingessato da decenni di ipertrofia legislativa, alla crisi. Si pensi alle aziende italiane pronte a produrre maschere ma bloccate da tempi biblici per la certificazione delle stesse nel mentre importiamo in emergenza e distribuiamo DPI dall’estero spesso con dubbie certificazioni.

Torniamo al proverbio cinese d’apertura. Chi è al timone e ha sbagliato rotta non dia la colpa a chi ha remato e pure controcorrente con remi piccoli. Faccia un bagno d’umiltà, riconosca gli errori e rimetta in rotta la barca il prima possibile.

22 di Aprile… Remare, signori, remare…


21 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

CHI DECIDE LA FASE 2?

Bambini a passeggio con mamme.

Suono di campanelli di biciclette.

Code ai semafori.

Panchine come luoghi di convivio, discussione.

La vita di comunità.

Ricordi del mondo pre-COVID che emergono? NO.

Immagini di un futuro sperato? NO.

È il mondo di qualche giorno fa, Sabato 18 Aprile 2020.

Allora una domanda sorge spontanea.

Chi decide la FASE 2?

Pensavamo fosse il governo, pensavamo fosse la sua Task Force (inglesismo che sembra dare più autorevolezza a quello che è un gruppo di lavoro) di esperti. Pensavamo fossero le regioni e le loro Unità di Crisi a decidere quando saremmo passati alla fase 2.

Non è andata così. Non sta andando così.

Una premessa, d’obbligo.

Cerco di osservare ciò che accade con gli occhi dello storico. Lo storico descrive, racconta e spiega, ma non giudica.

Non ho il ruolo o l’importanza o l’autorevolezza di chi può giudicare. Mi limiterò dunque a raccontare.

Raccontare che ha già deciso la Fase 2 non il governo, ma la gente. Che ci piaccia oppure no.

Ha deciso la Fase 2 il gruppo di 6 persone che ho visto assieparsi(senza mascherine) a distanza di 30 cm di fronte al furgoncino che vende frutta e verdura proprio fuori dall’ospedale.

Ha deciso la Fase 2 il gruppo di 3 mamme e relativi bambini che giocavano nel parchetto di fronte alla Piastra (ambulatorio).

Lo hanno anche deciso i 3 proprietari di auto che stavano approfittando della bella giornata di sole per lavare le macchine nell’autolavaggio lì vicino.

Scene di vita normale, quotidiana.

Le persone (alcuni, per carità, non tutti) hanno deciso, più o meno consapevolmente, che la fase 1 è finita.

Lo hanno deciso perché non reggono più l’isolamento, perché l’abitudine alla paura ha abbassato la soglia di percezione della stessa, perché non credono nell’isolamento, perché “a me tanto non succederà perché sono sano” o perché “tanto è tutta una montatura”. Poco conta quale sia la motivazione.

E con gli occhi dello storico registriamo l’evento.

Ora cosa succederà?

In attesa che le istituzioni decidano cosa fare il popolo si muove autonomamente. Non siamo la Cina. Non è pensabile l’esercito per le strade. Ogni popolo democratico e libero alla fine si autodetermina.

Ora più che pensare alla fase 2 comincio allora a chiedermi quando sarà, ma soprattutto come sarà, la Fase 3.

Perché se non sapremo gestire la Fase 2 o la gestiremo in modo anarchico come sta accadendo vedo un grande rischio.

Il rischio che la Fase 3 sia un ritorno alla Fase 1.

Qualcuno potrebbe far notare (e avrebbe ragione) che questa volta saremmo pronti. Abbiamo posti in terapia intensiva (raddoppiati), abbiamo ventilatori, monitor, maschere c-PAP.

Ma veramente vogliamo di nuovo doverli utilizzare in modo intensivo?

E soprattutto per quanto a lungo vogliamo avere ospedali fagocitati dal COVID?

Io sogno una Fase 3 nella quale il cardiologo torna a curare il cuore, Il chirurgo a operare, l’ortopedico a riparare fratture. Sogno una Fase 3 nella quale riapriamo ambulatori, visitiamo, parliamo, confortiamo.

Sogno una Fase 3 nella quale avere armadi pieni di maschere e ventilatori non utilizzati.

Torniamo dunque a vivere, ma facciamolo con giudizio e buonsenso.

Tra rimanere chiusi in casa mesi e fare come le 6 persone dal venditore di frutta, assiepate senza alcuna distanza né protezione c’è la giusta via di mezzo.

Se sapremo cominciare a uscire (quando ci sarà concesso) con buonsenso e razionalità proteggendoci e proteggendo gli altri riusciremo a passare tutti insieme dalla Fase 2 a una Fase 3 di rinascita e ripartenza.

Al contrario, se saremo come i 6 acquirenti della bancarella, rischiamo di andare incontro ad una nuova Fase 1 dopo la 2.

Forza e coraggio. Dimostriamo di avere disciplina e verremo premiati.

21 di Aprile... Le fasi della vita...


20 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

I GRADI DI SEPARAZIONE

- Lathi (Finlandia).

- Fontainebleau (Francia)

- Cordoba (Spagna)

- Londra.

- YorkTown (Virginia – U.S.A)

Luoghi distanti. Lingue diverse. Culture diverse.

Eppure, caro Diario, mai così vicini.

L’altra sera ascoltavo un’amica, Sabrina Mugnos (ricercatrice, scrittrice e ottima divulgatrice), che con la sua grande capacità dialettica spiegava come tutta la materia che ci compone, anche noi esseri viventi, discenda dalla polvere delle stelle.

Tanto diversi dunque solo apparentemente, tanto uguali se andiamo a vedere i “mattoni” di cui siamo formati.

Uguali anche in tempi di crisi di certezze e di valori.

E tu, diario, dovresti saperne qualcosa.

Perché in barba alle zone rosse, alle quarantene, agli isolamenti, hai viaggiato.

Non mi avevi detto niente.

Alla sera o nei momenti di pausa ti penso, ti scrivo, infine ti pubblico.

E mentre la notte ci avvolge e lenisce le stanchezze ed i tormenti della giornata COVID, spenti computer e tablet, tu silenzioso prendi vita.

Immerso nella grande “rete” hai imparato a viaggiare.

Prima all’interno del nostro “condominio” virtuale. Hai incontrato tanti amici che condividono con noi i tuoi racconti ogni giorno. Ti scrivono con una regolarità tale che se uno di loro mancasse all’appuntamento mi preoccuperei di sapere come sta. Sono amici di cammino e discussione.

Ma il condominio non era sufficiente per te che volevi volare. Ti andava stretto.

Così hai spiccato il volo a mia insaputa.

Hai fatto quello che forse io e molti di noi non potranno fare per molto tempo.

Hai valicato montagne, attraversato oceani, passato confini, ignorato dogane, sei riuscito addirittura ad “entrare” in una base aerea americana.

Non potevi pensare di tenerlo nascosto a lungo, però.

Qualcuno dei tuoi nuovi amici lontani ha cominciato a scrivermi. Qualcuno commentando i tuoi post, altri scrivendo a me via Messenger.

Ho conosciuto, tra i tanti, Ander dalla Spagna, Kaarina Kallio dalla Finlandia, Oliver da Londra, Emeline dalla Francia, Stefania Dimofte dalla Virginia (U.S.A.).

Con alcuni solo un saluto. Con altri uno scambio epistolare più approfondito.

Non dovrebbe stupirmi.

Torno con la mente ad anni fa, quando facebook nacque. Eravamo pionieri dei social.

Una delle prime cose che imparammo a quei tempi fu il concetto dei “6 nodi” o dei “6 gradi separazione”.

Si sosteneva cioè che ognuno di noi attraverso 5 soli collegamenti/conoscenze/relazioni potesse entrare in contatto con qualsiasi abitante del pianeta connesso alla rete.

Oggi, di fronte al viaggio di questo diario, comincio a credere possa essere vero.

Il diario ha viaggiato addirittura più veloce del coronavirus.

Ed un messaggio giunge chiaro, condiviso, da molti dei nuovi amici “terrestri”.

Che siano spagnoli, francesi, inglesi, americani, finlandesi.

Una visione di questa epidemia in termini costruttivi. Abbiamo vissuto per decenni convinti di poter dominare il mondo, i suoi ritmi, le sue risorse, di poterlo piegare alla nostra volontà.

Il COVID è stata una piccola rivoluzione della nostra epoca. Ci sta mostrando come indipendentemente da ceti, origini, lingue, culture, dovremmo imparare ad avere tutti più rispetto ed anche una certa reverenza verso il pianeta che ci ospita e verso tutto ciò che su questa “nave stellare da crociera” sta compiendo il viaggio insieme a noi che ci piaccia oppure no.

Allora a tutta la Compagnia del Diario, ovunque si trovi su questo pianeta …

auguro un futuro radioso con nuove sfide da affrontare con spirito rinnovato

I wish a bright future with new challenges to face with a renewed spirit

Je souhaite un avenir radieux avec de nouveaux défis à relever avec un esprit renouvelé

Toivotan valoisaa tulevaisuutta uusien haasteiden edessä uudella hengellä

Deseo un futuro brillante con nuevos desafíos que enfrentar con un espíritu renovado

20 di Aprile… Siamo figli delle stelle…


19 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

50 SFUMATURE DI COVID

Domenica, giornata tradizionalmente di riposo anche per il Diario che in questo giorno cerca leggerezza, serenità e parla di ricordi.

Se ripenso alla mia giovinezza, alle estati trascorse in giro per la Francia con i miei genitori e mio fratello, ricordo i colori.

Ricordo il blu intenso del cielo provenzale. Un blu uniforme, netto, deciso, non una nuvola. E sotto il blu il verde dei campi, tonalità diverse, sfumature.

Ricordo il viola penetrante della lavanda camminando nella valle di Senanque verso l’abbazia.

Ricordo il bianco della pietra della cittadella di Les Baux sulle Alpi Provenzali.

Se ripenso al viaggio di lavoro che feci a Pechino anni orsono, ricordo i colori.

Ricordo il grigio di centro città, un’aria grigia, dovuta all’inquinamento, che filtrava tutto sottraendo i restanti colori.

Ricordo il rosso della Città Proibita, un rosso mattone e porpora che ti accompagnava lungo gli interminabili cortili e passaggi.

Ricordo la linea grigio pietra che solcava e tagliava infinite colline di un verde smeraldo. Una linea curva. Ondulata. La Grande Muraglia.

Ricordo il bianco e il rosa dei ciliegi in fiore all’ombra del Tempio del Cielo.

Ricordi e colori.

Ora se ripenso alle prime settimane dell’era COVID comincio a identificare alcuni colori, forse anche loro destinati a lasciare una traccia mnemonica.

Colori che, casualmente (o forse no?) ricordano la bandiera italiana.

VERDE:

Il colore delle divise, dei copri capelli, delle ciabatte.

È verde cupo, opaco. Frutto dei lavaggi ripetuti. È il verde delle notti passate su sedie di fortuna.

È il verde bagnato dal sudore di chi indossa le tute anticontaminazione.

È il colore dei sovra camici impermeabili.

Ricorda il verde dei soldatini della mia infanzia. Tutti bloccati in pose statuarie armi in mano. Ore trascorse a guerreggiare e fantasticare di vittorie incredibili contro eserciti avversari impossibili.

Anche oggi si guerreggia, sono i “soldatini verdi” dell’era COVID.

ROSSO:

È il colore del sangue.

Così importante e vitale durante la crisi COVID.

Uno degli esami, un po’ fastidioso, che i pazienti COVID conoscono è l’emogasanalisi. Un prelievo fatto da una piccola arteria per esaminare i contenuti di gas (soprattutto ossigeno e anidride carbonica) nel sangue arterioso. Ci serve per capire come stanno funzionando i polmoni e se sono in grado di espellere anidride carbonica e prendere dall’aria inspirata l’ossigeno vitale.

Il rosso che ci piace è quello brillante, chiaro, vivo. È il rosso che ci annuncia, ancora prima di vedere i risultati di laboratorio, che di ossigeno ne abbiamo a sufficienza.

Peggio è quello invece rosso cupo, scuro, buio. È il rosso che ci avverte che dobbiamo aiutare i polmoni, dare più ossigeno noi, cambiare maschera.

Le nostre “50 sfumature di rosso”.

BIANCO.

Sarebbe facile pensare ai camici bianchi, Alle maschere.

No.

Il Bianco che tutti noi (N.d.R. Vercellesi, specifico visto che ormai il diario gira il mondo) ricorderemo è quello del pelo di un lupo.

Il Lupo Bianco che è divenuto simbolo dell’altruismo, della donazione, della vicinanza. Il Lupo Bianco che il benefattore e amico Carlo Olmo ha portato ormai ben fuori dai confini vercellesi giungendo con le sue donazioni sino alla martoriata Bergamo.

Un bianco candido, luminoso. Disegnato da adulti e bambini, inizialmente, come ringraziamento simbolico a chi aveva donato loro molto in tempi di crisi (Olmo) e divenuto ora un simbolo.

Ora il Lupo ci accompagna, compare nelle foto di volti stanchi ma sorridenti, quel sorriso che arriva dal sapere di non essere soli.

Abbiamo spesso la memoria corta, ma questo bianco cerchiamo di non dimenticarlo appena sarà finito tutto.

Colori e ricordi.

Come dopo una lunga pioggia quando comincia a spuntare il sole…

19 di Aprile… Venite a vedere, c’è l’arcobaleno!…


18 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

IL VOLO

Capita a volte che alla mente si affaccino ricordi che apparentemente (o superficialmente) nulla hanno a che vedere con il momento presente.

Immagini, colori, suoni e odori aperti come un file cliccato per errore.

A quel punto possiamo ignorare, possiamo biasimare il nostro cervello per quell’attimo di distrazione. Oppure possiamo fermarci, aguzzare la vista, mettere a fuoco quel ricordo e pensare, dopotutto, che se è stato selezionato in quell’istante tra altri mille deve esserci una ragione, sottile magari, ma pur sempre una relazione di causa ed effetto.

Come capita a volte facendo ricerche su Google. Si cerca qualcosa e si trovano correlazioni o risultati inaspettati.

Così accade stamane (NdR: l’evento si riferisce a qualche giorno fa) mentre, in piedi di fronte al letto tra ventilatore ed elettrocardiografo, attendo degli elettrodi.

E più il tempo (imprecisato e non misurabile all’epoca del COVID) trascorre, più la mente vola, lontano dalle barriere fisiche, dalle costrizioni.

Il mio “Google” lavora ed apre un file.

Negli occhi una foto scattata tanti anni orsono a Berlino. Era un viaggio di lavoro ma nel tempo tra un meeting e l’altro attraversai le molte città di cui Berlino è composta, un puzzle di colori, storia, sofferenza e speranza.

Lasciato alle spalle ciò che restava del Checkpoint Charlie ed il suo confine invisibile, risali lungo Zimmerstrasse, poi voltai. Ricordo un edificio austero, rettangolare, mattoni rossi, grate arrugginite alle finestre. Difficile capire se fosse un vecchio edificio industriale o se fosse ad uso abitativo. Ora era abbandonato, forse in attesa di demolizione. Berlino offriva (ed offre credo ancora) questi accostamenti, questi contrasti tra usura e splendore, ricordi di un’epoca di rovina e monumenti alla rinascita.

Non ricordo come arrivai al muro. IL MURO. Uno dei pochi tratti oggi rimasti e non cannibalizzati dalla città.

Cemento, ferro, ruggine e scritte usurate dal tempo. Simbolo di prigionia, di isolamento, di consunzione.

Fui inizialmente sopraffatto dal senso di oppressione che ancora emanava dalla materia inerte di fronte a me. Poi alzai gli occhi. E vidi, nel cielo solcato da nubi bianche e vaporose, un pallone aerostatico legato alla terra da un lungo cordone ombelicale. Svettava con il suo azzurro colore del cielo sopra le miserie dell’uomo. Scattai la foto quasi d’istinto.

Di migliaia di foto scattate in vita mia questa è quella cui sono sempre stato affezionato, racconta, parla, racchiude tutto il male ed il bene di cui l’uomo è capace.

Ora, in quella stanza tra ventilatori e monitor quella foto ha preso vita di fronte a me.

Perché?

La soluzione è semplice.

Come quel giorno a Berlino alzai lo sguardo e cambiai prospettiva, così faccio ora.

Sopra il letto, oltre la finestra, splende il sole di un Aprile caldo e deserto.

Ecco cosa ho visto: un letto (il muro) ed un sole fuori (il pallone, il volo).

E non posso non pensare che di fronte al muro (la malattia, il COVID) vedremo innalzarsi molti palloni.

Sapremo volare più in alto. Ogni giorno che passa impariamo a volare più alto.

Ed ogni respiro che migliora ci avvicina a quel cielo che non potrò dimenticare della Berlino di tanti anni fa.

Abbiamo superato e demolito tanti muri nella storia, sapremo superare anche questo e già ci stiamo staccando da terra.

18 di Aprile. Vento da Nord, spieghiamo le vele...


17 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

PUNTI FERMI

<< Quando vi siete accorti, quando avete avuto la percezione dell’inizio?>>

Questa la domanda che il caro amico, lo scrittore e giornalista Gian Luca Marino, mi ha rivolto qualche giorno fa.

Stava svolgendo un’indagine personale.

Ho risposto via WhatsApp quasi di getto.

Non ho avuto necessità di scavare nei meandri della memoria.

C’era un’immagine netta, decisa, scolpita.

L’immagine ha i colori bianchi e rossi. Alternati a bande disposte diagonalmente, affiancate a formare un lungo, lunghissimo rettangolo.

È l’immagine del cordone di sicurezza che viene tirato per impedire l’accesso ad un corridoio, una stanza o un ascensore.

Il ricordo ha anche il colore giallo fosforescente attraversato da una banda bianca. È il giubbotto del personale di sicurezza comparso all’improvviso quasi dal nulla.

Il ricordo ha una voce, perentoria: << passaggio chiuso, non si passa>>.

Si osservava attoniti quella scena e per la prima volta il mondo che si fermava. Il DEA che si svuotava, i passi concitati. I primi “astronauti” comparire dietro l’angolo del corridoio DEA che dalla mia visuale, la porta in fondo all’Unità Coronarica, a malapena era visibile.

La comparsa degli astronauti voleva dire una sola cosa possibile, era scattato il piano.

Avvicinai uno dei giubbotti gialli. << Ne è arrivato uno?>>

<< SI >>.

Perché c’era quasi il timore reverenziale nel pronunciare il termine. Mi torna in mente la saga di Harry Potter.

Chi ha letto i romanzi della Rowling sa bene chi è “Tu sai chi” o “Colui-che-non-deve-essere-nominato” Lord Voldemort, una personalità talmente malvagia che pronunciarne il nome stesso rappresentava un tabù.

Allo stesso modo il COVID all’inizio era “ne è arrivato UNO”.

Quel giorno, di fronte a quei giubbotti gialli, alle strisce, ai blocchi che non ti permettevano più di percorrere corridoi calpestati per anni, ci fu la percezione netta che tutto stava cambiando.

Che si stavano chiudendo velocemente porte e finestre. Che la libertà si stava riducendo.

Non ricordo la data precisa (ma i colleghi DEA di sicuro).

Di li a breve giunse la tenda esterna della Protezione Civile per il triage differenziato COVID e NON-COVID.

Era la nostra “Apartheid” che nasceva. Positivi e negativi.

Nell’arco di pochi giorni l’ospedale si sarebbe diviso tra sporchi e puliti, tra “dentro” e “fuori” in un continuo mutare.

Quel giorno, il primo, tornando a casa mille pensieri. È arrivato. E ora? Rischieremo (due genitori che lavorano in ospedale) di portarlo a casa?

Decidemmo di “militarizzare” da subito la gestione sporco/pulito anche a casa. Contenitore per vestiti all’ingresso, niente da fuori doveva entrare dentro. Niente orologi, anelli, via la barba scomoda sotto la maschera.

Poi ci fu un secondo giorno che si è scolpito nella memoria. E questo penso nella memoria di tutti noi.

Fu il giorno in cui ci svegliammo in “zona rossa”.

Per la prima volta nella vita la nostra libertà, quella di chi ha visto l’era d’oro delle democrazie nate o rafforzate dopo il secondo conflitto mondiale, ci veniva sottratta.

Eri prigioniero. All’improvviso andare a trovare un parente a 20 km era diventata un’impresa impossibile. Quella mattina affacciati alla finestra, ai balconi osservavamo un cielo all’improvviso divenuto straniero.

Eccoli caro amico i due giorni che mai dimenticherò.

E ricordarli servirà ad apprezzare tutto ciò che di bello, semplice e scontato come la libertà avevamo senza accorgercene e riavremo quanto prima se ci impegniamo tutti.

17 di Aprile… Ricordi indelebili…


16 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

CON GLI OCCHI DELLA MALATTIA

Caro Diario,

queste pagine stanno crescendo e divenendo, a poco a poco, un canto corale.

Qualche giorno fa abbiamo ospitato il racconto di un giovane volontario di Croce Rossa (7 Aprile).

Oggi con estremo piacere ospito il racconto di una paziente appena dimessa dal nostro ospedale, Cristiana Folin Massarini.

Un racconto piacevole e, come dimostrerò alla fine, anche istruttivo.

<< Un attimo prima sei nel letto a cercare di capire cos’hai e un attimo dopo sei in pronto soccorso attaccata a mille elettrodi in attesa di una coronarografia perché hai avuto un infarto. E tu che credevi fosse ansia. Beata te.

Che poi uno deve andare in pronto soccorso e si immagina visioni apocalittiche di convulsioni in corsia, zombie e barricate. E invece no.

A me è parso tutto molto ordinato. Normale normale no (si entra da un tendone bianco di plastica montato a fianco della solita entrata. Ti aspetti di trovare E.T. in effetti), però estremamente funzionante, funzionale e vivibile.

La sala d’attesa finalmente non è piena di immaginarie slogature al mignolo del piede e di gomiti che fan contatto col ginocchio. Niente parenti chiassosi e lamentosi.

Si entra / registrazione (“Ma perché non sei venuta subito??”, “Non volevo disturbare. Avete già tanto lavoro”, “Sì ma hai avuto un infarto. Avevi un buon motivo, tu”) / sala d’attesa (adesso è una sorta di piccola corsia. Con le poltrone reclinabili. Tipo quelle della chemio per capirci. Sempre belle visioni io) / esami / diagnosi / ent / esc. Per me è stato ent.

Oggettivamente c’è concitazione. Molti sono scafandrati, altri meno. Sempre due mascherine, guanti. Se del caso cuffie e calzari. Mentre ero lì stesa ho visto passare un’amica semi-scafandrata che stava per attaccare il turno in zona Covid. Sì perché ora il pronto soccorso è diviso in zona covid e non covid. La zona covid è blindata dietro quella che era la vecchia corsia del ps. Nessuno ci può entrare, ma se hai la fortuna come me di dover andare in sala operatoria la puoi sfiorare con lo sguardo. Ed è oggettivamente inquietante.

Quello che ora è il ps classico sta dove prima c’erano ambulatori e guardia medica. Le barelle sono divise da tende blu. C’è del surreale. Mascherine, visiere, occhiali, guanti corti, guanti lunghi, camici verdi, azzurri, cuffiette. Ma George Clooney non c’è (o almeno da dietro le mascherine non lo scorgo). In realtà si percepisce il nervosismo. Chi viene da fuori è comunque un potenziale infetto. Fino a prova contraria. Non te lo diranno mai, ma hanno paura. E fanno bene. Perché noi che stiamo fuori non abbiamo capito una ceppa.

Il lavaggio mani è compulsivo, altrimenti sostituito da un nuovo paio di guanti. Le os passano in continuazione a pulire maniglie, stipiti e tutto ciò che è metallico (o plastico) con soluzioni apposite e suppongo alcoliche. Con mia somma gioia perché è una cosa che faccio sempre anche io e che dico di fare a tutti. Ma vince sempre lo sguardo della mucca.

Sono tutti mascherati. Noi monomascherati, loro doppio mascherati. Ne hanno due. Sotto c’è la mitica fpp2 senza valvola (vederle dal vivo è stato emozionante come quando mi hanno presentato Claudio Coccoluto al New York Bar) e sopra c’è la chirurgica. Ovviamente perché la chirurgica va cambiata spesso.

Ah. La mascherina va toccata solo alla base superiore o inferiore. Altrimenti si infetta. Quindi vi annuncio che le abbiamo infettate tutti (Perché le spostiamo brancandole dal centro). Mettiamoci il cuore in pace.

In tanti mi hanno chiesto se la situazione Covid in ospedale si percepisce. Sì. Si percepisce. Alcuni mascherano bene le loro paure, altri sono velatamente inquieti. I pazienti sono i più indisciplinati. Toccano, fanno, mascherine a caso sui gomiti, lavarsi come hobby. Alla fine parliamo parliamo ma quelli che fan più danno siamo noi.

Nel frattempo i falchi pellegrini hanno nidificato sul Pirellone e i Panda dello zoo di HK si sono accoppiati dopo 10 anni. Perché erano finalmente soli. Invece noi eravamo sulla Pontina direzione vacanze pasquali oppure sui tetti a grigliare.

Ci andrebbe un asteroide sì, ma selettivo. >>

Non so come ringraziare Cristiana.

Ci ha mostrato l’ospedale al tempo del Covid con gli occhi curiosi, un po’ impauriti, dubbiosi, di chi si trova di fronte alla malattia nel momento storico sbagliato (ma ce n’è forse uno giusto per ammalarsi?).

Il racconto di Cristiana, però, mi permette di ricordare anche un’altra cosa. Il COVID non ha annullato le altre patologie. Non rischiamo di sottovalutare sintomi o malattie per paura di entrare in ospedale. Si deve invece fare. Con percorsi separati, con le garanzie che servono. Abbiamo fatto e facciamo molti sforzi per garantirvi assistenza e cure indipendentemente dal COVID. Per Cristiana decidere di venire in Pronto Soccorso ha permesso di trattare precocemente una patologia cardiaca che altrimenti avrebbe potuto avere conseguenze più gravi.

16 di Aprile... Siamo qui per voi…


15 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

IL GIUNCO E LA QUERCIA

<< Si piega il giunco / ai richiami d’amore / d’un vento audace >>

Haiku – autore ignoto giapponese

Fine guardia.

Quei minuti che precedono le 20.00.

La mente torna ai tempi delle scuole primarie quando tamburellando con le dita sul banco di legno compensato si attendeva il suono della campanella. Un suono che annunciava libertà, aria, cieli aperti. Un suono che sapeva di pasta al pesto, di spaghetti al pomodoro. Un suono che rimandava un’eco di grida, di risate, di calpestio di decine di piccole scarpe giù a rotta di collo per le scale.

Ora si aspetta il collega che prenda il testimone.

Ieri sera mentre attendevo di sentire i rumori di passi lungo il corridoio un altro suono catturò la mia attenzione: un lungo fischio, un lamento.

In rapida successione al lamento seguì un forte colpo.

Vento.

<<Avevano annunciato venti di Bora>> ricordai.

L’aria si incuneava a forza tra i vecchi infissi e intercapedini ormai sconosciute ai più, anche ai manutentori stessi.

Il nostro caro vecchio ospedale ha vissuto anni di gloria, uno dei più belli d’Italia alla sua costruzione. Ora mostra tutta la stanchezza degli anni. Tra queste mura ha visto nascere, ha visto morire, ha assistito a grandi felicità ed immense tristezze. Ha vissuto la vita di migliaia di uomini e donne che hanno cercato qui riparo e conforto dalle intemperie della malattia.

Ed oggi al vecchio edificio tocca vivere il tumultuoso terremoto del COVID. I suoi spazi non sono mai cambiati così rapidamente. Lui stesso fatica a riconoscersi.

Il cambiamento. E il vento.

Ragionavo su questo ieri sera attendendo il collega.

Fuori dalla finestra alberi alti, maestosi resistevano fieri al vento di Bora.

Alla base degli alberi alcuni cespugli ed alcuni steli che ricordano flebili giunchi.

Il vento attraversava i giunchi con impeto travolgente, li scuoteva, li piegava.

I giunchi oscillavano, si chinavano al suo passaggio, si rialzavano e si abbassavano nuovamente in una danza ritmata e solo apparentemente scomposta.

Gli alberi invece resistevano fieri e indomiti.

<<Ecco come affronterebbe un albero questa crisi che ci sta travolgendo. Vorrei essere un albero.>>

Così pensavo, assorto, in quei momenti.

Seguì lo scambio di consegne con il collega, terapie, quadri clinici, cose da fare durante la notte. Ed il passaggio di mano del telefono (ovviamente disinfettato).

Mi diressi verso la macchina parcheggiata nel cortile vicino agli alberi e d’improvviso accadde.

Un rumore sordo. Poi a pochi metri, con la coda dell’occhio, la percezione di un rapido movimento.

Un ramo di grosse dimensioni si era distaccato, spezzato dal vento era precipitato rovinosamente al suolo. Niente di grave, era caduto in una zona libera, lontano dalle auto.

Mi avvicinai ad osservare il ramo. Legno duro, massiccio. Eppure, aveva ceduto al vento, era crollato di fronte alla crisi. Totalmente ignaro del concetto di elasticità aveva resistito, senza scomporsi, sino al punto di rottura.

Li a pochi metri giaceva uno dei cespugli i cui giunchi osservavo prima dalla finestra.

Oscillavano, si piegavano. Reagivano al vento con una leggiadria percettibile solo osservandoli da vicino.

Non si opponevano al vento, lo cavalcavano, come un surfista navigato sull’increspatura schiumosa dell’onda più alta. Si adattavano secondo per secondo alle sue bizze.

Le mie certezze su come affrontare il COVID e il futuro del mondo che verrà si infrangevano su quel cespuglio.

La strategia vincente non era quella dell’albero, era quella del giunco.

Opporsi all’inevitabile a tutti i costi, resistere, restare rigidi non poteva portare nulla di buono.

Adattarsi, imparare, assecondare la corrente era la soluzione.

Lo stiamo facendo. Su queste pagine ho raccontato come molti di noi si sono re-inventati un mestiere. Dentro e fuori gli ospedali.

Possiamo scegliere se farci travolgere da tutto questo, ostinarci a voler indietro il mondo di prima sbattendo la testa contro muri invisibili.

Oppure prepararci a danzare con il vento. Inventarci, rinascere, costruire qualcosa di diverso.

Molti dovranno farlo. Dal ristoratore, al proprietario di locali, al gestore di una spiaggia, all’insegnante, all’estetista, al medico, all’imprenditore.

Non rimpiangiamo, progettiamo. Cerchiamo di non essere muratori ostinati nel voler restaurare un muro ormai diroccato, cerchiamo di essere architetti che ne costruiscono uno nuovo.

Scegliamo di non essere alberi.

Scegliamo di essere giunchi.

15 di Aprile... Come canne al vento…


14 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

UN LUNGO CARNEVALE

Il 9 Marzo, quando il diario era ancora un’idea embrionale, scrissi due righe circa l’uso corretto delle maschere.

Molto tempo è passato da allora.

Ai tempi del corona un giorno vale una settimana, una settimana un mese ed un mese un anno.

Non sembra a tutti noi di trovarci in questa impasse da tempo immemore? La vita di prima sembra un miraggio lontano e sfuocato.

Ma gli errori restano gli stessi di quei giorni di inizio marzo.

Oggi caro Diario ti aspetta dunque una pagina “di servizio” che spero possa essere utile, una pagina di istruzioni per gli amici della Compagnia e del “condominio” del Diario.

Da circa 2 settimane sui social impazzano pubblicità di maschere.

In una sorta di catalogo carnevalesco compaiono maschere con filtri, maschere senza, maschere bianche e colorate. Alcune presentano forme strane, avveniristiche, quasi fossero studiate nella galleria del vento.

È un business attorno al quale girano milioni di euro.

E non mi illudo che la crisi all’improvviso abbia risvegliato un inaspettato senso dell’etica in tutto il genere umano.

Mentre da un lato c’è la parte “sana” della popolazione che reagisce con gesti di estremo altruismo, solidarietà, vicinanza, dall’altro lato resiste una parte affaristica e truffaldina che nemmeno il COVID ha saputo estirpare anzi, all’ombra della crisi vegeta, prospera e si accresce.

Cerco con voi e con il diario di analizzare oggi gli scenari cui ci troviamo di fronte quando cerchiamo di capire come, dove e quali maschere acquistare. Soprattutto per quanto riguarda l’acquisto online.

Proliferano infatti le pagine di commercio in rete aperte e chiuse in poche ore. Mostrano maschere visivamente attraenti, dalle certificazioni dubbie o nemmeno citate. Prezzi alle stelle. E soprattutto istruzioni poco chiare. A volte promettono consegne in 48 ore salvo, a pagamento completato, avvertire che, per causa di forza maggiore, la consegna avverrà in settimane. A volte la consegna non avviene e la pagina sparisce.

Cerchiamo allora di ricordare alcuni concetti.

DOVE COMPRARE:

Diffiderei delle pagine auto sponsorizzate sui social dietro alle quali non si capisce la ragione sociale dell’azienda, mancano riferimenti se non e-mail generiche. In caso di truffa quasi impossibile riuscire a risalire al colpevole e riavere i soldi. Meglio optare per rivenditori affidabili e certificati.

QUALE MASCHERA E PER CHI:

- Maschera “chirurgica”:

È quella che dovrebbe essere più diffusa tra la popolazione. Costo basso (se non venduta da chi se ne approfitta). Vantaggio: protegge efficacemente gli altri da te se sei un portatore. Motto: IO PROTEGGO TE, qualcuno l’ha definita la maschera “altruista”. Se tutti, due mesi fa avessimo capito e messo queste maschere, forse i contagi sarebbero stati molto più bassi. È quella che ci porteremo dietro per molto, molto tempo. Mesi, se non anni. Svantaggio: non può proteggere efficacemente chi lavora a stretto contatto con pazienti COVID in ospedale o chi fosse obbligato da sano a dividere le stesse stanze di una casa con un COVID + (questo non dovrebbe accadere idealmente).

- Maschera FFP2 e FFP3:

Sono le maschere “professionali”. Servono a chi lavora a stretto contatto con pazienti COVID + (la sigla N95 equivale alla ffp2, N99 a ffp3). Esistono in due varianti: con valvola e senza valvola. Quelle senza valvola sono le migliori. Motto: IO PROTEGGO TE e PROTEGGO ANCHE ME.

Quelle con valvola, molto diffuse purtroppo tra la popolazione sono invece DELETERIE. Proteggono ME che la indosso, ma se sono portatore senza saperlo infetto gli altri perché in espirazione la valvolare permette la fuoriuscita del mio respiro senza alcuna protezione. Motto: IO PROTEGGO ME MA NON MI INTERESSO DI TE: una maschera “egoista”. Quelle vendute online purtroppo sono quasi tutte con valvola (perché fanno più scena e sembrano più professionali).

- SCIARPE, FOULARD e affini:

Meglio di niente. Se il concetto è proteggere gli altri da me e non si hanno alternative possono andare bene ma attenzione. Se appoggio quella sciarpa o altro in giro e sono portatore posso trasmettere il virus sulle più svariate superfici dove può rimanere, in condizioni ottimali, anche diversi giorni.

ALCUNE REGOLE GENERALI:

Le maschere sono usa e getta. Tentativi amatoriali di riciclarle se eseguiti con superficialità rischiano di non essere efficaci e renderle strumento di diffusione del contagio.

A fine utilizzo non afferriamo la maschera nella sua parte frontale ma per gli elastici e gettiamola. Se la tocchiamo frontalmente e poi tocchiamo naso, bocca o occhi rischiamo di vanificarne la funzione e trasferire particelle virali su mucose dove possono essere assorbite.

Mascherine in luoghi affollati o se contatti ravvicinati. Se camminiamo da soli o siamo in auto non servono.

E per oggi è tutto… IO PROTEGGO TE e TU PROTEGGI ME. Ricordiamocelo.

14 di Aprile… Maschere pronte, mancano solo i coriandoli…


13 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

RITORNO AL FUTURO

Caro diario,

Lunedì di Pasquetta.

Decido così sulla scia della giornata di ieri di proseguire con una pagina “leggera”. Domani ci tufferemo nuovamente nel mondo COVID, oggi assaporiamo la libertà.

In giornate di riposo come queste mi immergo tra i miei amati libri.

Qualche giorno fa ho acquisito un nuovo libro per la mia biblioteca. Si tratta della prima edizione (1895) di “The Time Machine” (La macchina del tempo) scritto da uno dei più grandi scrittori di fantascienza di fine ‘800 H.G. Wells (famoso peraltro per “La Guerra dei Mondi”). Il primo romanzo di fantascienza della storia nel quale compare una macchina progettata per viaggiare nel tempo.

Sfogliando e cominciando a leggere il libro (N.d.R - giunto con il corriere nel pieno rispetto delle norme attuali) ho provato invidia per il protagonista. Quanti di noi non desidererebbero ora entrare in una macchina del tempo e poter osservare il futuro che ci attende? Credo tutti.

Così abbassate le luci, con il libro ancora aperto inizio quel viaggio.

Un viaggio di fantasia, nessuna pretesa di vedere o raccontare il futuro vero, ma solo tentar di immaginarne uno possibile.

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Agosto 2020, giorno imprecisato.

<< costumi, crema solare, ciabatte, e tutte le altre cose, preso tutto!>>

Leggere la checklist preparata da settimane ha un sapore particolare. Un gesto semplice in altri tempi. Oggi quel foglietto di carta con un elenco di oggetti banali e scontati è invece ciò che più ci avvicina a rivedere il mondo. La famiglia si prepara per una gita al mare, la prima della nuova era. Sole, acqua, vento e libertà.

Un mese caldo, afoso, come deve essere.

L’auto è stata controllata e ri-controllata, dopo mesi di inattività, sperando che i brevi viaggi casa-ospedale-casa di questi mesi abbiano consentito di mantenere attiva la batteria ed evitato l’ovalizzazione dei cerchi.

Una normale gita al mare.

<<L’ombrellone lo hai preso?>>

Ecco la domanda che al contrario, quasi subito, mi ricorda che nulla è normale.

<< Certo, anche il set da pic-nic >>

Oggetti inconsueti per noi che nel mondo di prima avevamo la nostra spiaggia attrezzata e il ristorante preferito dove fermarci.

Nel mondo di oggi, Agosto 2020, le spiagge attrezzate sono ancora chiuse. L’ombrellone si porta da casa. Sulla spiaggia devi mantenere le distanze. I posti al ristorante contingentati, tavoli distanti, persone distanti.

<< Lettera M oggi giusto, non è che ci siamo confusi? >> quei dubbi che si attorcigliano in testa all’ultimo momento.

<< Si, M tranquillo >>. Oggi per la gita fuori porta è il turno delle famiglie il cui cognome inizia con la M, procedura indispensabile per limitare gli spostamenti ed evitare assembramenti nelle zone costiere.

<< La maschera papà >> grida infine il piccolo Francesco mentre l’auto sta per partire. È la sua maschera dell’uomo ragno. << presa Francy, prese tutte >> rispondo. Perché con noi, inseparabili da mesi, ci sono anche le maschere per i grandi. In caso di contatti ravvicinati. Una sorta di eterno carnevale.

Sarà una giornata serena. Diversa. Non la solita calca estiva. Ogni nucleo familiare (con la M) sulla spiaggia separato come fosse un’isola.

Ma tra le isole noi umani, da sempre, cerchiamo di gettare ponti senza arrenderci di fronte alle difficoltà.

E stanno gettando ponti i due bambini di due nuclei familiari diversi e distanti che, alcune ore dopo sulla spiaggia, stanno comunicando, a distanza di 3 metri, con due bicchieri di plastica ed un filo.

È uno scampolo di passato che si fa strada nei miei ricordi. È un ritorno del passato al futuro.

È uno splendido telefono senza fili. Qualcosa che i due bimbi della generazione digitale hanno riscoperto facendo loro un’antica tradizione. I bambini ridono. È quasi più divertente che parlarsi al telefono.

Che questa crisi ci abbia insegnato a tornare un po’ semplici? A tornare a meravigliarci delle piccole cose, delle scoperte, del riscoprirci costruttori in un mondo che sembrava tutto pre-costruito per noi?

La sera mentre rientriamo in autostrada verso casa, il sole che tramonta alle spalle e il nastro di asfalto silenzioso e vuoto come non mai, penso alla giornata lavorativa di domani.

È un’estate senza “STOP”. Il mondo sta ripartendo. I negozi aperti, bar e ristoranti aperti con prenotazioni per fasce orarie. Ospedali e ambulatori aperti con accessi differenziati. All’ingresso in molti posti ancora quella domanda che risuona in testa da mesi.

<<Ha avuto febbre nelle ultime 3 settimane? Ha avuto parenti COVID positivi?>>

Rientriamo a casa con il buio. Sul frigorifero un altro elenco. Non è la checklist mattutina per la spiaggia. È il calendario familiare delle video-chat.

Ormai, a distanza di mesi, si è compreso che non torneremo indietro del tutto.

Il lavoro a distanza, le lezioni a distanza, le riunioni a distanza.

Così serve un elenco familiare per coordinarsi e capire chi dovrà essere collegato, con chi, a che ora. Altrimenti la casa potrebbe essere sopraffatta da un caos indistinto di voci intellegibili.

<< Lezione di ritmica alle 10.00, chat per compiti scolastici estivi di gruppo alle 14.00… finalmente alle 16.00 sarà il mio turno con riunione direttivo società scientifica cardiologica>>

Sul tavolo di fronte al frigo le buste. Quelle trasparenti per telefono e tablet da proteggere domani in ospedale. Perché non si torna indietro. Nella vita si guarda sempre avanti. Dagli errori abbiamo imparato. Ora sappiamo proteggerci.

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Chiudo il libro. Spengo la macchina del tempo.

Chissà come sarà veramente l’agosto del 2020.

Una cosa credo. Sarà un mondo diverso per quanto tenteremo di illuderci che così non sia.

Ma il mondo, se ben guardiamo, è sempre stato diverso da sé stesso.

Il mondo del 1920 era ben diverso da quello di fine ‘800. Il mondo del 1945 era radicalmente diverso da quello del 1920. Il mondo dopo l’11 settembre 2001 era diverso (i controlli, i liquidi sugli aerei, la paura del terrorismo sotto casa – una rivoluzione che ora sembra tanto lontana).

Ora sarà diverso di nuovo. Ma di una cosa sono convinto, qualunque sia il futuro che ci attende sapremo adattarci. Sapremo costruire il nostro telefono senza fili, sapremo “gettare ponti”.

13 di Aprile… Comunque vada non sarà come prima…


12 Aprile (a.d.c. – Anno Del Corona)

LA RICERCA DELL’IMMORTALITA’

Caro diario,

è ormai da più di un mese che su queste pagine parliamo di COVID e del mondo all’epoca del COVID.

Un cammino ed una compagnia (quella del Diario) instancabile.

Penso che qualsiasi marcia, anche quella più temeraria, debba però prevedere delle soste.

E’ Pasqua, e oggi ci fermiamo.

Seduti su un masso lungo il ciglio della strada, all’ombra di alcuni ciliegi in fiore prendiamo fiato. E come si usa tra viandanti si raccontano storie.

La storia che racconto parla di immortalità, un augurio carico di speranza di questi tempi.

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Qualche anno orsono, aprendo un piccolo libro giapponese stampato nel periodo EDO (circa nel secolo XIII) acquistato al mercatino di libri di Piazzale Diaz a Milano, feci una delle scoperte “librarie” che più di altre porto nel cuore.

Il libro stampato su carta di riso, molto delicata mostrava tutti i segni del tempo accentuati dalla fragilità del materiale. Lo sfogliai dunque con estrema delicatezza senza alcuna percezione, nei primi passaggi, del piccolo tesoro che celava. L’apertura e la prima “sfogliatura” di un libro usato, vecchio o antico, appena acquisito, è infatti un’operazione che affronto con trepidante attesa nella speranza, a volte ripagata, di scovare ricordi di vite e di uomini. In questo caso, però, ad una prima occhiata nulla traspariva e se mai qualcosa fosse stato custodito in passato tra quelle pagine, pensai, era evidentemente già stato asportato da proprietari precedenti.

Mi sbagliavo.

La sorpresa si palesò solo in un secondo momento, durante alcune accurate operazioni di pulizia delle pagine quando, distaccando con una pinzetta due fogli di carta di riso, vidi qualcosa scivolare fuori da uno spazio racchiuso tra due fogli ripiegati: una piccola foglia. Il libro risulta infatti composto da fascicoli con fogli ripiegati a due a due, il che comporta la “creazione” di “intercapedini” tra coppie di fogli.

Osservai con stupore la piccola foglia sfuggita alla sua prigione secolare. Evidentemente niente e nessuno doveva aver disturbato il suo sonno ed il suo rifugio doveva averla protetta sino ad oggi dagli occhi indiscreti (ed a volte famelici) dei proprietari che si sono succeduti nel tempo.

Osservai un altro fascicolo. Nascosta tra due pagine ripiegate, infatti, giaceva una seconda piccola foglia di colore nerastro, quasi trasparente per la sottigliezza: un’immagine soave di fragilità e delicatezza. A fine esplorazione ben più di 10 foglie vennero estratte dal libro.

Non ci volle molto a identificarle come foglie di Ginkgo Biloba. Una foglia importante, non una qualunque, per almeno due motivi. Il Ginkgo Biloba innanzitutto rappresenta una delle più antiche piante a noi note (viene considerata in effetti alla stregua di un fossile vivente) ed è in alcune culture (Cina e Giappone soprattutto) ritenuto un simbolo di eternità. Una pianta dal fascino indiscutibile se pensiamo che anche il poeta Goethe in occasione di uno dei suoi tanti viaggi, rimase così affascinato da un esemplare di questa pianta da dedicarle una poesia:

La foglia di quest’albero, dall’oriente/ affidato al mio giardino, / segreto senso fa assaporare/ così come al sapiente piace fare// È una sola cosa viva,/ che in se stessa si è divisa?/ O son due, che scelto hanno,/ si conoscan come una?// In risposta a tal domanda,/ trovai forse il giusto senso./ Non avverti nei miei canti/ch’io son uno e doppio insieme?

Il secondo motivo che rende queste foglie speciali è stata la scoperta che una delle due portava impresso il testo della pagina sottostante. La foglia dunque doveva essere stata inserita tra le pagine nel momento della prima stampa poiché aveva subito la pressione di questa o doveva aver assorbito parte dell’inchiostro prima della sua asciugatura. Si può quindi credere che si tratti di due foglie raccolte dallo stampatore stesso o da persona a lui vicina e che il loro destino non sia più stato separato da quello del libro.

È bello pensare che lo stampatore abbia voluto, inserendo delicatamente quelle foglie tra le pagine, augurare vita eterna alla sua opera.

Ma è anche bello pensare che, se quelle fragili foglie hanno attraversato i secoli per portare a noi il loro messaggio, anche noi umani al tempo del COVID, nonostante la nostra fragilità, avremo la forza insieme di uscirne.

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È ora di riprendere il cammino non senza aver fatto scivolare prima, di nascosto, una foglia di ginko biloba in tasca. Servirà come promessa di immortalità.

Buona Pasqua a tutta la Compagnia del Diario.

12 di Aprile… si sta come d’autunno sugli alberi le foglie (scriveva Ungaretti)…


11 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LA PARTITA (3 tempi)

Caro Diario,

giornata di ricordi e nostalgia.

Siamo ad oltre un mese dall’inizio della pandemia a “casa nostra”.

Un mese in cui si sono rivoluzionate vite, mestieri, progetti.

Penso a chi ha annullato matrimoni, a chi ha vissuto il dolore di un funerale cui non ha potuto nemmeno partecipare per l’ultimo saluto. A chi ha abbassato serrande senza sapere quando si rialzeranno.

A chi ha indossato maschere e tute che sono ormai diventate una seconda pelle.

Ragionando sul tempo passato tornano alla mia memoria gli anni, in gioventù, del volontariato in Croce Rossa.

È proprio tra i volontari del Comitato di Croce Rossa di Oleggio che sono cresciuto e tra loro ho imparato cosa volesse dire “essere” medico ancora prima di “fare” il medico. Tra quei ragazzi e ragazze che tolte le divise del lavoro ordinario giornaliero si trasformavano in angeli blu (il colore all’epoca della divisa volontario CRI) ho imparato l’importanza e la differenza tra “curare” e “prendersi cura”.

Un’altra esperienza che porto nel cuore degli anni di Croce Rossa è quella di Protezione Civile.

Passai il Natale del 1994 a Garessio durante i giorni dell’alluvione del Tanaro (la notte di Natale il mio letto fu un comodo contenitore di spugnette da cucina che ancora ricordo per l’impronta del corpo che lasciai al risveglio la mattina dopo).

Feci poi l’esperienza del terremoto a Colfiorito vicino a Perugia nel 1997.

Esperienze che ora, ai tempi della pandemia da corona, tornano alla mente.

Trovo oggi come all’epoca che la reazione umana di fronte a catastrofi o eventi troppo drammatici e improvvisi possa essere riassunta in 3 tempi di un’ipotetica partita:

PRIMO TEMPO (lo smarrimento)

È umano di fronte ad eventi più grandi di noi e della nostra comprensione cedere allo smarrimento.

Lo stravolgimento improvviso delle abitudini, del piccolo mondo che ci siamo costruiti in tanti anni, un mondo fatto di regole precise. Una scacchiera sulla quale per decenni il cavallo si è sempre mosso a L. Sempre. Poi un giorno qualcuno (un terremoto, un’alluvione, una pandemia) cambia la regola: il cavallo si muove in diagonale.

D’un tratto non riconosciamo il mondo fuori, hanno spostato la nostra panchina preferita, hanno occupato il parcheggio che è sempre stato nostro.

Il crollo delle certezze porta confusione, ansia, ed un certo fatalismo (accada ciò che deve accadere)

Il Diario nacque in quei giorni del primo tempo. Voleva creare un ordine e permettere di capire le nuove regole della scacchiera nel più breve tempo possibile,

SECONDO TEMPO (la determinazione)

Poi si reagisce.

Si imparano di corsa le nuove regole, si affina l’intelletto. Si rimboccano le maniche. L’essere umano nelle sue migliaia di anni di storia è sopravvissuto a tutto. Carestie, epidemie, cataclismi, guerre (sopravvivere a sé stessi è stato e sarà purtroppo sempre il problema più arduo del genere umano).

È la fase della determinazione e della reazione. Ci si rialza in un misto di adrenalina e spirito di gruppo.

Stiamo vivendo quella fase ora.

Un paese che compie imprese straordinarie dagli ospedali costruiti con l’aiuto anche degli alpini, dai ragazzi che si inventano maschere per la ventilazione, i benefattori che aiutano la popolazione. Un paese che si prende per mano.

Ora dobbiamo solo non commettere un errore, quello caratteristico del terzo tempo.

TERZO TEMPO (l’abitudine)

L’essere umano ha una capacità di adattamento straordinaria. È una forza, ma anche una debolezza.

Perché se l’emergenza dura a lungo (e questa sta durando e durerà ancora a lungo) l’uomo, il suo sistema nervoso, cominciano ad adattarsi.

Si abbassa il livello di reazione allo stress e si abbassa la guardia. Un pericolo concreto.

Comincio a intravederlo.

Lo vedo nelle mascherine che cominciano a scivolare scoprendo il naso (nelle prime settimane eravamo maniacali nel posizionarle), ora qualche maschera scivola giù troppo. Lo vedo nella stretta di mano che scappa mentre sino a ieri gomito contro gomito era l’unico saluto concesso. Lo vedo nell’avvicinarsi troppo al bar dell’ospedale per un caffè. La percezione del pericolo comincia a diminuire. Ma il pericolo è ben lungi dall’essere scomparso.

È ora di rinfrancare lo spirito osservando che tutti i nostri sforzi stanno cominciando a dare risultati, ma non è ora di festeggiare togliendo i dispositivi di protezione.

Non basta essere sopravvissuti al primo tempo ed aver giocato bene il secondo. È con il terzo tempo che si porta a casa il risultato.

Dunque continuiamo a giocare. Rispettiamo le regole e vinceremo.

11 di Aprile …. Fischio di inizio, palla in campo ….


10 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

IL MONDO IN UNA TAZZA

C’è qualcosa di magico, quasi mistico nella pausa caffè. Un momento di estasi durante il quale le lancette dell’orologio si fermano.

Un momento carico di aspettative.

La pausa caffè non ha una durata fissa. Può essere il caffè trangugiato al volo accompagnato da ustioni di 2° all’esofago o quello degustato talmente lentamente da divenire freddo e denso al palato.

Poi c’è il caffè ai tempi del corona.

E allora mi lancio in una nuova sfida. Si può scrivere un’intera pagina del diario “attorno” ad una sola tazzina di caffè?

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Superficie bianca, pallida, ombrata da qualche segno del tempo e qualche crepa.

Il vecchio tavolino in ambulatorio ne ha viste tante.

Ha visto gli anni dell’abbondanza, gli anni della carenza. Ha ascoltato parole di conforto e assistito a lacrime di stanchezza.

Nei tempi normali, il mondo di prima, il tavolino accoglieva brioche, biscotti. Era luogo di incontro, unione, convivialità.

Oggi non è più così.

Mi osserva silenzioso mentre lo ricopro con il foglio di carta di un lettino.

Appoggio delicatamente la maschera sulla carta. Un gesto attento e preciso per evitare contaminazioni.

Lavo le mani con soluzione disinfettante.

Tolgo il sovracamice.

Rilavo le mani.

La macchinetta del caffè, rossa come una Ferrari d’annata, pronta.

Pulisco i due piccoli tasti.

Osservo il bicchierino pronto ad accogliere il caffè. Aspetto. Vi è una finestra posizionata dietro la macchinetta. Un mondo fuori dal vetro zigrinato che protegge dalla vista interna,

Il dito fermo sul tasto, la cialda è già stata inserita. Fuori del vetro opaco ombre più o meno indistinte, un sole strano che sembra appiattire le superfici. L’immagine sfocata è come il tempo che stiamo vivendo. Indefinito, imperscrutabile. Ancora da mettere a fuoco.

<<Ehm…>> giunge da dietro le spalle.

<<La macchinetta è occupata?>>. Hanno ragione.

<<Faccio subito, ma manteniamo le distanze, poca confidenza >> rispondo quasi ridendo.

Comincia a scendere il caffè e osservando il flusso posso almeno verificare una cosa, trovare un punto fermo. La forza di gravità anche in questo nuovo mondo non è cambiata. Il caffè impiega lo stesso tempo a riempire il bicchierino che avrebbe riempito ai tempi di Newton (se il caffè in cialde fosse esistito).

Una certezza è già qualcosa in un’epoca di transizione.

L’altra certezza segue di pochi secondi, il tempo di scottarmi lingua, palato e parte delle labbra.

Ottimo, anche le leggi della termodinamica sono confermate.

Passato l’effetto ustione attendo un’altra conferma, diversa. Abbiamo imparato che l’infezione da COVID spesso comporta perdita più o meno totale del senso del gusto e dell’olfatto.

Va tutto bene. Sento il caffè transitare, passare le papille gustative, attivarle. E le papille funzionano. Il cervello registra il passaggio, mi informa inizialmente di note di tabacco, forse muschio ed un sentore finale di frutti di bosco. Credo che la mia mente abbia lavorato anche di fantasia, che abbia voluto inserire i frutti di bosco per lanciarmi un messaggio. Un desiderio di fuga, di aria aperta, di boschi, passeggiate. Un caffè preso ai piedi di un pino osservando la valle sottostante, i piedi nudi appoggiati su un letto di muschio.

Ultima goccia. Tutte le cose belle hanno una fine.

Osservo il fondo del bicchiere. Gli antichi aruspici avrebbero letto dal fondo di quel bicchiere il nostro futuro. Avrei potuto prevedere la fine della pandemia, la riapertura delle spiagge. Avrei potuto osservare in quei fondi il mondo dopo.

Lo sguardo si perde però sul fondo del bicchiere.

<<Maledette cialde>>. Dietro di me lo sguardo divertito e perplesso dell’infermiere.

<<Niente fondi lasciano queste diavolerie moderne>>. Nessun futuro da leggere.

Forse è meglio così.

Getto il bicchiere. Scarico la cialda usata.

Metto sovracamice.

Lavo le mani

Riposiziono la mascherina.

Rilavo le mani.

E’ stato breve ma intenso.

Alle spalle il rumore della macchinetta, un altro caffè in arrivo. Ma non avrà il gusto unico e inimitabile del mio di prima. Il gusto di un caffè che promette libertà ed un futuro migliore per quanto imperscrutabile.

Al lavoro, pausa finita.

10 di Aprile... Caffè lungo in tazza corta grazie…


9 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LA LEZIONE (Parte 2 di 2)

Caro diario,

Riprendiamo un discorso iniziato ieri.

Parlavamo di errori.

COSA RISCHIAMO DI SBAGLIARE ANCORA

Allarghiamo la nostra vista fuori del territorio nazionale.

Stiamo (in Europa e negli USA) sbagliando ancora.

La lezione italiana doveva insegnare qualche cosa.

Eppure altri paesi non si sono preparati: Spagna, Francia, Inghilterra tra tutti in Europa.

In Spagna hanno costruito un super-ospedale in zona fiera a Madrid scoprendo dopo le prime centinaia di ricoveri che non ci sono abbastanza servizi igienici, che i letti sono troppo vicini, che non ci sono abbastanza attacchi per ossigeno, che i sanitari non hanno abbastanza DPI. Una bomba a orologeria, non una zona di cura bensì una zona ad alto rischio di ulteriore contagio per sanitari e assistenti.

Francia e Inghilterra sono partiti lenti, in sordina.

L’Inghilterra con iniziale senso di superiorità ha parlato in un primo momento di “immunità di gregge” (una sorta di contagiamoci tutti e chi resiste fa ripartire il paese subito, una selezione naturale alla moda di Sparta), salvo poi correggersi, ammettere che se aveva ceduto il SSN Nazionale (definito da Boris Johnson uno dei migliori al mondo) allora era dura anche per la terra di Albione.

In Francia con l’emergenza in pieno corso in Italia e la sanità Lombarda già collassata hanno organizzato il record mondiale di riunione di puffi (migliaia di persone mascherate radunate in uno spazio ristrettissimo). Non che anche da noi non siano mancati i carnevali non sospesi in tempo.

E poi gli Stati Uniti d’America. Un paese che ora dovrà fare i conti con le sue contraddizioni.

La politica di chiusura e di progressivo isolamento da anni degli USA di Trump non ha certo bloccato il coronavirus che si presta a breve a superare i 200.000 contagi. Un sistema sanitario d’eccellenza per pochi ma forse non in grado di reggere l’urto su una moltitudine soprattutto se coperta del semplice “MEDICAIRE A e B” (l’assistenza minima sanitaria di base per chi non ha un’assicurazione privata).

COSA NON DOBBIAMO SBAGLIARE PER IL FUTURO

Ci permettiamo da queste pagine, medici, infermieri, pazienti e cittadini di appuntare alcuni promemoria virtuali per la politica:

- Cestiniamo gli attuali calcoli degli standard ospedalieri. È evidente che il calcolo dei posti letto era, come le nostre associazioni di categorie e le società scientifiche denunciavano da anni, sottostimati. Soprattutto per quanto riguarda le terapie intensive e sub intensive e i dipartimenti di emergenza (DEA, Pronti Soccorsi). In Piemonte si raccontava qualche giorno orsono dall’Unità di Crisi regionale dell’enorme sforzo con il quale si sono aumentati del 94% i posti di terapia intensiva nelle ultime due settimane. Nella stessa conferenza stampa si affermava “… all’inizio dell’emergenza avevamo una disponibilità tra le più BASSE a livello nazionale.” Male. Dovevamo aspettare il COVID? Primo errore da non ripetere più.

Ricordiamo che in Germania dove al momento vi è la mortalità più bassa d’Europa ci sono 30.000 letti di Terapia Intensiva.

- Scopriamo ora come investire sul personale sanitario, sul numero che sia adeguato, sulla sua preparazione e qualificazione sia vitale, VITALE. Eppure arriviamo da più di 10 anni di tagli, demansionamenti, chiusure di strutture con ridotta possibilità di crescita professionale. Ora si assumono all’improvviso tutti… pensionati, neo laureati, specializzandi, chiunque si presenti. Ma a che punto eravamo solo 3 mesi fa quando si paventava la possibilità di un nuovo piano di rientro con conseguente possibile blocco turnover?

Non commettiamo vecchi errori.

Nel 2021 il mondo della sanità universalistica come quella del modello italiano e europeo dovrà comprendere che la spesa sanitaria non è una spesa, è un investimento a lungo termine in salute. E la salute è felicità, il diritto essenziale di ogni essere umano.

9 di Aprile… errare è stato umano, perseverare sarebbe diabolico…

8 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LA LEZIONE (Parte 1 di 2)

Caro diario,

questo pomeriggio mi permetto alcune righe più “razionali” e meno “emozionali”.

Credo sia importante , a distanza ormai di un mese dall’inizio della nuova era capire alcune cose:

- cosa abbiamo sbagliato (PARTE 1)

- cosa rischiamo di sbagliare ancora (PARTE 2)

- cosa non dobbiamo sbagliare per il futuro (PARTE 2)

Ndr: Tanto da dire, allora per non stancare troppo i lettori della “Compagnia del Diario” dividiamo in due puntate.

PARTE 1: COSA ABBIAMO SBAGLIATO

Non abbiamo capito in tempo.

La Cina era qualcosa di lontano geograficamente e culturalmente parlando.

Un mondo ancora chiuso, notizie filtrate, controllate.

Come tentare di osservare una enorme stanza dagli alti soffitti attraverso il buco di una sottile serratura. Si ha per forze di cose una visione ristretta, si possono tentare stime, ma non sapremo mai come è veramente quella stanza.

Abbiamo espresso scetticismo sin dall’inizio circa le notizie, i dati, i numeri dell’epidemia cinese.

Abbiamo guardato alla quarantena militare cinese con gli occhi giudicanti di chi vive in democrazie sicure, avvolgenti. Mai dalle nostre parti sarebbe sceso l’esercito nelle strade.

Abbiamo guardato con invidia ed ammirazione costruire un ospedale di migliaia di posti letto in 10 giorni. Cose dell’altro mondo, si diceva.

Si diceva anche che in Cina l’epidemia avesse colpito così duramente per le condizioni igieniche soprattutto nei sobborghi delle grandi megalopoli, la povertà, la commistione tra uomo e animale.

Da noi sarebbe andata diversamente.

Noi avevamo un tessuto sociale, sanitario e di igiene ben diverso (ah quante illusioni ci siamo fatti!).

Non abbiamo creduto ai numeri quando l’epidemia cresceva in Cina. Si pensava fossero maggiori ma nascosti dal controllo del governo sui mass media.

Eppure, guardate come è strano l’animo umano, appena dalla Cina sono arrivati segnali di disgelo, appena hanno affermato di aver raggiunto il picco, appena hanno detto che si poteva allentare la quarantena gli abbiamo creduto subito. Avevamo bisogno di credere. Credere che effettivamente non era poi la tragedia che si temeva.

Avevamo bisogno di credere che potevamo non interessarci di questo problema, che ci avrebbe solo sfiorati.

Sui TG e nei salotti televisivi (e siamo a fine febbraio) illustri virologi (che oggi si ergono a paladini della lotta contro il coronavirus) ci rassicuravano insieme al ministro della salute che da noi sarebbe stata poco più di un’influenza normale (che sensazione rivedere ora quei filmati).

E su questo errore, questo cullarsi sulla nostra presunta forza sanitaria, su una presunta invulnerabilità dei sistemi occidentali, su tutto questo siamo franati.

L’onda ci ha preso in pieno. La Lombardia è caduta per prima e con una velocità sorprendente.

Il sistema sanitario non era pronto, le istituzioni non erano partite per tempo a fare incetta di DPI (Dispositivi di Protezione), ed a emergenza scoppiata si sono accorti che tutti, nel mondo, li cercavano disperatamente.

Così i primi ad ammalarsi e ad essere fonte di contagio sono stati proprio i sanitari.

Non abbiamo inoltre compreso sin da subito che c’erano due campi di battaglia.

Uno negli ospedali e uno fuori. La gestione e il modello italiano di assistenza sul territorio era evidentemente non preparo ad affrontare una crisi di questa portata e questo ha consentito il diffondersi di focolaio incontrollati soprattutto in paesi o strutture ad alta concentrazione di pazienti anziani e fragili.

Abbiamo sbagliato tanto.

Poi ci siamo rialzati. Abbiamo costruito anche noi ospedali in 10 giorni.

Abbiamo fatto il punto e siamo ripartiti. Ora è importante NON ripetere gli errori. Imparare la lezione. Rischiamo di sbagliare ancora?

Ora è tardi. La mano sulla tastiera stanca. Ne riparliamo domani, a mente fresca.

Domani parleremo di cosa rischiamo di sbagliare ancora e di cosa dobbiamo fare per non sbagliare in futuro.


8 di Aprile… alla lavagna, interroghiamo….


7 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

UN ALTRO PUNTO DI VISTA

Caro diario, questa sera ti aspetta qualcosa che ancora non hai visto.

Per la prima volta (e non è detto sia l’ultima) ospito su queste pagine il contributo di un’altra persona che sta affrontando, con un punto di vista differente dal mio, l’emergenza COVID.

Lo scritto che segue mi ha colpito.

È schietto, sincero, va dritto al cuore. È il punto di vista di un giovane volontario soccorritore della Croce Rossa Italiana (comitato di Novara), si chiama Alessandro Buffelli . Ringrazio anche un altro volontario (CRI di Oleggio – Alessandro Mazzola) per avermi messo in contatto con autore del testo. Non posso dimenticare che proprio tra i volontari di Croce Rossa di Oleggio imparai ad amare quello che poi divenne il mio mestiere: prendersi cura, curare.


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Drin.

«Ciao. Ambulanza XXXX.»

«Ciao ragazzi, ho una bella grana per voi, scusatemi.»

«Tranquilla, dimmi.»

«Un Giallo, Covid.»

«Ok.»

«Salite in due. Mi raccomando, bardatevi bene.»

«Sì, tranquilla. Dove?»

«Via XXX, allarme delle ore XX»

«Oookay, ricevuto.»

«Mi raccomando, proteggetevi. Per qualsiasi cosa chiamateci. Buona fortuna…»

Di telefonate su quel cellulare ne ho prese tante, ma questa mi ha gelato.

Lo capisci dalla voce di chi ti fa uscire: una persona che non sa quale sia l’equipaggio, ma è preoccupata per te. È una voce dolce, ormai familiare, ma distrutta.

Non hai tempo per farti prendere dall’angoscia: è un giallo respiratorio, c’è da muoversi.

Solo che “muoversi” non è così facile: devi “bardarti”, devi metterti quella tuta XL bianca e plasticosa, con tre paia di guanti uno più spesso dell’altro, la mascherina “seria”, gli occhiali (sopra a quelli da vista) che si appannano, il cappuccio, i calzari, il nastro adesivo per sigillare la cerniera. Non è facile “bardarsi” bene, ma devi farlo in modo impeccabile, perché ne va della salute tua e di chi ti sta vicino, primi tra tutti i tuoi familiari.

Dopo dieci minuti ti richiama la centrale.

«Stai a vedere che è diventato un Rosso…»

E invece: «Ragazzi, a che punto siete? Tutto bene?»

«Sì, abbiamo appena finito di vestirci. Partiamo ora»

«Ok. Coraggio eh, in bocca al lupo! Se serve, siamo qui.»

Grazie, penso con una incredibile riconoscenza.

Sirene spiegate, si va. Viaggiare sull’ambulanza così “bardati” non è facile, ti manca il respiro, le curve sono prese veloci, soffri un po’. Ma non hai testa neanche per quello. Stai scacciando dalla testa il fatto che chi ti troverai davanti è un appestato: non è così.

Arrivi, prendi la radio, ti metti d’accordo con l’autista che si chiude in cabina.

Sali, ti trovi davanti il paziente coi familiari. È orribile, ma li vedi con le mascherine fuori posto e devi ordinare di sistemarle e di allontanarsi, di tenere un metro e anche più di distanza da te. Certo non fai una bella impressione: sembri un alieno bianco, una di quelle inquietanti figure che vedi nei film su Cernobyl, ma sai che sei tu e che con te c’è una tua amica. Dobbiamo essere umani e proteggerci al contempo.

Speri che la persona cammini, così da farla scendere autonomamente, ma non è così, e chiaramente non c'è neanche l’ascensore.

Prendi i parametri, dai l’ossigeno, la fai sedere sulla “cardiologica” (ndr: una sedia per il trasporto), la porti giù a fatica, devi essere anche duro nel dire di non aggrapparsi mentre la trasportiamo. E in tutto questo le fai paura, così “bardato”. Ti fai paura anche da solo, hai paura, ma devi tranquillizzarla.

A sirene spiegate si arriva in pronto soccorso, ma non è ancora finita: devi comunicare con l’infermiere, capire il da farsi, aiutarlo a gestire la fase di triage che, in un momento come questo, è più che mai complessa e delicata.

Torni in sede ancora “bardato”, via radio l’autista dalla cabina di guida ci fa i complimenti per l’intervento e noi facciamo il nostro primo, stupido e ingenuo sorriso.

Scendiamo, ci inondando di soluzione alla candeggina, ci spogliamo in un ambiente «vietato ai puliti», come dice un cartello all’ingresso.

Aria.

Aria pura.

Aria senza mascherina, senza occhiali, senza tuta.

Sorridi.

C’è da sanificare l’ambulanza: candeggina ovunque, senza pietà. C’è da sostituire le bombole di ossigeno, c’è da cambiare i teli di protezione. Non so quanto ci abbiamo impiegato: mezz’ora? Forse anche qualcosa in più: dev’essere tutto perfettamente pulito, non contaminato.

Drin.

«Ragazzi, siete operativi?»

«Dimmi.»

«Un altro Covid.»

«Ma dai, abbiamo appena pulito tutto!»

Ci ridi su, ma sai che è una risata amara.

Cambio equipaggio, grazie al cielo.

Tornare a casa dopo un servizio del genere è brutto: i genitori sono preoccupati, tu sei stanco morto, sogni il letto e confidi di essere ancora sano.

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Una cosa mi ha colpito del racconto di Alessandro: la vicinanza tra esseri umani che non è mai stata così intensa. La voce del centralino della centrale che si preoccupa per i ragazzi dell’ambulanza.

<< state attenti, proteggetevi>>, << mi raccomando>>. Cose non scontate. Siamo tutti una squadra.

Non dimentichiamocelo.

7 di Aprile…. Il canto delle "sirene"….


6 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

IL VIAGGIO

<< la vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo >> (Fernando Pessoa – Il libro dell’inquietudine)

<< E non c’è niente di più bello dell’istante che precede il viaggio, l’istante in cui l’orizzonte del domani viene a renderci visita e a raccontarci le sue promesse>> (Milan Kundera – La vita è altrove)

“Stringo il pugno.

Poi con estrema accortezza lo rilascio lentamente.

Osservo i primi granelli scorrere verso la parte inferiore del palmo e iniziare la caduta verso terra, come in una grande clessidra.

Un leggerissimo, quasi impercettibile, ticchettio testimonia la fine del loro viaggio dalla mia mano alla superficie della spiaggia. È calda al tatto ma ancora umida, segno della notte appena trascorsa che il timido albeggiare ha appena sostituito. La caduta dei granelli non è verticale. Compiono al contrario una traiettoria quasi parabolica. È colpa di una leggera brezza che gioca a contrastare la forza di gravità.

Un’aria lieve sfiora il viso. Un viso libero da maschere, di qualsiasi tipo.

Ad occhi chiusi l’abbraccio del sole nascente e la carezza dell’aria sono piccoli momenti d’estasi ai quali si aggiunge, come una melodia di sottofondo, il lento e regolare infrangersi delle onde a pochi metri, sotto gli scogli su cui sono seduto.

E la felicità è tutta lì un granello di sabbia, una schiuma d’onda, un alito di vento, un raggio solare.

Null’altro.

D’un tratto la spiaggia comincia a tremare, vibra. Il cielo si rabbuia. Il mare si ferma”

E sono costretto ad aprire gli occhi.

Sul visore del cellulare compare “CORSIA”. L’orologio segna le 3.50, è tutto buio, fuori. Attorno a me le 4 pareti della sala medici. Altra notte di guardia.

<< Arriva un ECG da refertare da area COVID >> avverte una voce sottile dall’altra parte.

ECG da area COVID. Un ECG imbustato, da trattare con i guanti. Lo porta un operatore avvolto da una tuta, maschera, occhiali. Se incontrassi questa persona tra poche ore tornando a casa non la potrei riconoscere. Siamo ombre nella notte.

Prima di riprendermi dal torpore stavo viaggiando.

Se penso all’idea di viaggio che avevo e che, penso, molti di noi avevano sino a due mesi fa, la mente si perde in immagini di luoghi esotici, luoghi carichi di storia e di fascino, meraviglie naturalistiche. Osservo il proiettore illuminare lo schermo bianco con istantanee di palme e spiagge di bianco cristallino, vette innevate che fanno capolino tra greggi di nuvole vaporose, guglie di cattedrali gotiche innalzarsi su vecchi quartieri dal sapore medioevale persistente.

Il viaggio era anche un mezzo per viaggiare dentro noi stessi. Lasciando le nostre radici, spiccando il volo. Più lontano si andava più il distacco dalla vita quotidiana permetteva di osservare la nostra esistenza e fare bilanci, progetti.

Pensiamo per un attimo di trovarci di fronte ad una tela di grandi proporzioni. Un affresco che occupa un’intera parete. Noi ci troviamo con il naso premuto contro la sua superficie rugosa, pochi centimetri tra i nostri occhi e la superficie.

Possiamo osservare da quella posizione solo qualche pennellata, percepire qualche tonalità di colore. Con la visione laterale, sforzando un po’ i muscoli oculari, possiamo intravedere, in modo sfuocato, una parte dell’insieme. Ma è un’immagine nebulosa, una foschia pervade il tutto.

Se ad un tratto stacchiamo il naso dalla parete e facciamo 5 passi indietro tutto diventa più chiaro. A 5 passi di distanza l’affresco non è un insieme di pennellate. E’ un’idea, un progetto, una storia raccontata.

Ecco cosa era il viaggio per me ai tempi pre-corona. La possibilità di vedere l’affresco (la vita) da lontano. Capirne o cercare di capirne il senso e imprimerne l’immagine nella mente per non dimenticarla, una volta tornato con il naso contro il muro.

Poi è arrivato il corona. Viaggiare è diventato e diventerà per un tempo non breve, una chimera.

Ma possiamo viaggiare in tanti modi. E se Pessoa ci insegna che il viaggio, alla fine, siamo noi è alla frase di Milan Kundera che mi ancoro in questo momento: l’istante più bello è quello che precede il viaggio. Le attese, le aspettative, la progettazione del viaggio.

Allora progettiamo, immaginiamo quei viaggi che ci attendono.

E se l’attesa dovesse essere lunga basterà chiudere gli occhi per essere su quella spiaggia a contare i granelli di sabbia.

6 di Aprile… in carrozza signori, si parte…


5 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

L’UMANA FRAGILITÀ

In queste settimane ci sono state pagine del diario tecniche, pagine emozionali, pagine motivazionali, pagine più ilari e divertenti.

Oggi, caro diario, tento, con tutti i miei limiti, di scalare una montagna.

Tento di scrivere una delle pagine più difficili che abbia scritto sino ad oggi ma credo i tempi siano maturi per addentraci nelle profondità di questo male, sperando che le parole scritte riescano a rendere ciò che nel cuore sento certamente con maggiore chiarezza di quanto sarà possibile esprimere su carta digitale.

E’ un argomento delicato. Toccherà i sentimenti di alcuni, il dolore di altri.

E’ il dolore di chi si ammala all’epoca del COVID.

Anche peggio, il dolore di chi vede un amico, un caro, un parente ammalarsi.

Perché a volte è più difficile guardare una persona amata soffrire che soffrire noi stessi.

E come abbiamo visto ammalarsi di COVID vuol dire avere come compagna di strada la solitudine, il distacco.

E questa è una novità di questi tempi bui. L’impossibilità di stare accanto.

Si lascia il proprio caro nel momento in cui sale in ambulanza o varca le porte del DEA.

Da li in poi i contatti sono a distanza.

Telefonici quando possibile. Anche con i medici che lo seguono.

Questa è la grande barriera contro la quale si infrange la possibilità di mostrare la nostra empatia.

Il senso di frustrazione, l’impotenza può prevalere.

Come si può lasciare una mano tesa verso noi e non poterla afferrare?

La disperazione e l’umana pietà ci porterà a cercare un rifugio.

In questi giorni è capitato diverse volte di ricevere telefonate da amici, conoscenti, pazienti.

Voci angosciate, depresse, sole. Chiedevano conforto, chiedevano aiuto per parenti, amici ricoverati o in procinto di essere ricoverati per COVID.

Chiedevano di avere notizie, chiedevano di intervenire presso i colleghi, chiedevano un occhio di riguardo, un letto, una possibilità.

Ascoltare quei gridi di dolore non è stato e non sarà facile.

Si ascolta e poi si hanno due strade di fronte. La prima è quella della frase di circostanza. Dire che si farà tutto, che si telefonerà al collega DEA o del reparto COVID per sapere, chiedere, per cercare di trovare una sistemazione, un’attenzione particolare. Poi, magari, quella telefonata non la si farà.

La seconda è quella che ho scelto. È dura. Costa fatica e lascia un solco nell’anima. È la scelta di dire dei SI ma anche dei NO, chiaramente, senza giri di parole.

E di spiegare, con il cuore in mano perché tra i SI ci sarà anche qualche NO.

Perché NON si farà una telefonata al collega in determinati orari, perché NON si faranno pressioni, perché si cercherà di raccogliere informazioni (SI) ma senza disturbare.

Non si farà tutto questo perché i colleghi urgentisti (DEA), rianimatori, infettivologi e tutti quelli che girano nei reparti COVID sono da un mese “pancia a terra”. Sono da un mese incessantemente all’opera su un numero di pazienti che in momenti normali o solo fino ad 3 mesi fa sarebbe stato impensabile poter gestire contemporaneamente. Sono da un mese quasi “reclusi”. Sentono una pressione enorme, una responsabilità quasi opprimente nel riuscire a cavalcare un’onda mai vista. E lo stanno facendo (bene!) a costo di grandi sacrifici.

A questi colleghi non possiamo e non dobbiamo mettere pressione. Devono poter lavorare con lucidità e quella professionalità che consenta loro di curare tutti (e tutti in egual maniera) senza distinzioni di sesso, ceto o amicizie.

L’unico modo che ho per aiutare questi professionisti è di creare, insieme ad altri colleghi, attorno a loro uno spazio di confort, una sfera protettiva.

Ecco perché, con grande sacrificio, dirò ancora, a volte, dei NO.

Farò tutto questo sperando che dall’altra parte si capisca il senso di quei NO.

E sapendo che le molte volte in cui dirò SI sarà un SI sincero, mai di opportunità.

Farò questo sperando che si capisca che quei NO non sono mancanza di empatia. Al contrario.

Chi lascia momentaneamente un proprio caro in ospedale in area COVID sappia che lo sta affidando a equipe di intensivisti, pneumologi, infettivologi, internisti che hanno costruito una squadra che lavora senza sosta. Una squadra che parla, si confronta, sceglie strategie in comune e si riunisce ogni giorno.

Non possono fare miracoli, non potranno salvare tutti. Salveranno e guariranno molti però, e lo stanno facendo in silenzio, dietro alla loro tute, lontano dal rumore delle strade e dei telefoni che squillano incessantemente.

Li lascerò e i lasceremo lavorare, ci affideremo a loro.

Argomento difficile, il dolore.

Alla nascita dovrebbero darci un libretto di istruzioni su come gestirlo. Invece dobbiamo imparare strada facendo e forse senza mai imparare del tutto.

Domani, prometto caro diario, sarà una pagina leggera, per compensare. La pagina di oggi, per ovvi motivi, è stata più pesante delle altre.

5 di Aprile …. Fidiamoci e affidiamoci con il cuore in mano …..


4 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

“SVENTURATA LA TERRA CHE HA BISOGNO DI EROI”

Caro diario abbiamo parlato tanto di eroi in questi giorni e non potevo non pensare a questa citazione di Bertolt Brecht.

Quegli eroi con gli abiti candidi, visiere, guanti, maschere.

Girano in questi giorni immagini dei supereroi della televisione e dei cartoni affiancati a medici e infermieri.

Immagini che hanno fatto molto sorridere il mio piccolo Francesco, meno noi grandi.

Perché tra noi operatori la parola eroi non vorremmo usarla. Non lo siamo certo.

Siamo persone normali che stanno cercando di fare cose straordinarie (cioè fuori dall’ordinario senza altra enfasi). Molti colleghi addirittura quasi si offendono, e li comprendo, a sentire questo termine.

Come se chiamarci eroi o soldati potesse giustificare l’invio in trincea senza scarpe e con munizioni contate.

Nessuno qui vuole fare l’eroe, vogliamo solo fare il lavoro per cui abbiamo studiato e cercare di farlo con scienza, coscienza e strumenti adeguati.

Altri forse sono e saranno gli eroi di questa storia.

Si, noi rischiamo l’esposizione, il contagio, rischiamo di portarlo a casa. E questa è l’ombra che ci segue dappertutto. Ma abbiamo anche un vantaggio: a fine mese, cascasse il mondo, abbiamo uno stipendio per noi e per le nostre famiglie.

Ho molti tra gli amici che ormai fanno parte della “Compagnia del Diario” che dando dell’eroe a noi non si accorgono di esserlo loro, veramente.

Parlo di padri e madri lavoratori autonomi che da un mese non guadagnano niente.

Parlo di chi ha dovuto tirare giù le serrande senza alcun paracadute.

Sono in caduta libera.

Immagino gli occhi di un padre o di una madre, bloccati tutto il giorno in casa. Il conto in banca che scende. Uno è pronto a fare tutte le rinunce possibili ma come lo spiega magari ad un figlio? Un bimbo come il mio che compie gli anni, che si aspetta una festa, regali dai parenti? Si aspetta allegria e serenità.

Il mondo dei liberi professionisti e delle partite IVA è anche il mondo che, in un paese senza grandi strutture industriali, tiene vivo il tessuto economico e sociale.

Come, quando e soprattutto riusciranno tutti a ripartire quando saremo fuori da questa crisi?

Ora loro ci sostengono, fanno donazioni anche piccole ma grandi se pensiamo ai loro problemi, alle attività chiuse. Scrivono a noi ringraziandoci. Rispettano le chiusure con grandi sacrifici.

Sono loro i nostri eroi, eroe è l’uomo che riesce a donare un sorriso al proprio figlio nascondendogli le paure, le difficoltà. Eroe sarà il padre/madre che rinuncerà a tutto per fare quel regalo di compleanno.

Ricordiamocelo quando sarà finita.

In quel momento toccherà a noi, che lo stipendio l’abbiamo preso, aiutare loro.

Quando negozi, bar, ristoranti, artigiani riapriranno dovremmo essere li.

Ricordiamoci del negozio sotto casa, ricordiamo di quanto ci è mancato chiacchierare senza maschera con un negoziante con la scusa della spesa. Ci aspetta un’estate lavorativa. Negli ospedali bisognerà recuperare mesi di attività ambulatoriali e interventi rimandati.

Immagino un ferragosto “tutto aperto”. Viaggeremo di meno (più probabilmente non viaggeremo), dunque avremo qualche euro in più da spendere in loco. Toccherà a noi dare quella scintilla che faccia ripartire il motore.

<< Basta un istante per fare un eroe ma è necessaria una vita intera per fare un uomo onesto >>

(Paul Brulat)

4 di Aprile … mano al portafoglio …


3 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LA COMPAGNIA DEL DIARIO

Giornata particolare oggi.

Il giornale La Sesia ha dedicato oggi uno splendido articolo al nostro gruppo.

Ringrazio Matteo Gardelli per la sensibilità e preparazione dimostrata sull’argomento. Il ruolo dei giornali è molto importante. Fare informazione corretta nella grande confusione che si è generata in queste settimane comporta studio, approfondimento. Richiede capacità di porsi domande e di mettere in dubbio anche presunte certezze.

Ho parlato durante l’intervista del “nostro gruppo”.

Perché il diario è nostro, non è più mio, forse lo era all’inizio, ora ne sono un custode, ma ha preso vita propria.

Da qualche giorno rispondendo a qualche commento di alcuni di voi ho cominciato a definirci “La compagnia del Diario”.

Da appassionato “tolkeniano” trovo molte analogie tra il nostro cammino e la trilogia de “ Il Signore degli anelli”.

Ho voluto così pensare ed elencare alcuni punti sperando che l’ironia, se non una cura, possa essere almeno di sollievo di questi tempi:

1- SAURON: E’ il corona virus. Un’ombra sui nostri cuori, il buio che annulla la luce. Un velo di tristezza. L’isolamento. Abbattere Sauron è l’obiettivo di tutti noi, ognuno con i suoi ruoli. Perché Sauron/COVID ci ha tolto la libertà, il sole e l’allegria.

2- MORDOR: Il regno oscuro di Sauron è il centro dove tutto ha avuto inizio. E la “nostra” Wuhan. Da lì il buio si diffonde inizialmente ignorato o sottovalutato dai più.

3- MINAS TIRITH: (La città bianca): E’ l’Italia. E’ il baluardo che non può cadere altrimenti il buio dilaga. Siamo stati i primi a confrontarci con l’onda, abbiamo vacillato, ma abbiamo anche tenuto. Pagando un alto prezzo, con sacrifici straordinari, ma le difese non sono crollate.

4- LA COMPAGNIA DEL DIARIO: Siamo tutti noi. La compagnia ha guerrieri e maghi che potremmo identificare con gli operatori sanitari e con chi garantisce i servizi essenziali, ma anche gli hobbit. Saranno loro, le persone normali, senza apparenti poteri, a fare la differenza contro Sauron/Covid 19. Ognuno di noi che è rimasto in casa, che ha sacrificato la propria libertà ed in molti casi ha sacrificato anche il bilancio familiare chiudendo attività. Siamo in cammino, Mordor è ancora lontana ma ogni giorni è un passo in meno.

- LA CONTEA: Rappresenta la felicità, la libertà, la bellezza. Torneremo alla Contea, sarà un viaggio lungo ma torneremo. E quando saremo lì ci sembrerà ancora più bella di quando l’abbiamo lasciata.

La Compagnia del Diario è anche un grande condominio. Chiudiamo gli occhi e immaginiamo un caseggiato costruito a cerchio attorno ad un cortile anch’esso circolare. I balconi di questo palazzo si affacciano tutti sul cortile interno.

Verso il pomeriggio/sera ogni giorno usciamo con il pensiero su quei balconi. Ci troviamo a parlare (a debita distanza per carità). Condividiamo preoccupazioni, speranze, sorrisi e qualche lacrima.

Si discute, qualcuno parla e qualcuno ascolta.

Alla fine tutti dentro, arriva la notte ed un sonno ristoratore per anime stanche ma determinate.

Questo senso di mutua protezione e di forza del gruppo è stato ben rappresentato da uno slogan lanciato da una carissima collega Marzia Bertolazzi: <<io proteggo te, tu proteggi me>>.

Se io metto la mascherina proteggo te, se tu metti la mascherina proteggi me. Se la mettiamo entrambi Sauron/COVID 19 viene sconfitto. Apparentemente semplice, ma richiede costanza e tanta pazienza.

3 di Aprile… tessoro, il mio tessoro…


3 Aprile

Il diario del dottor Sergio Macciò

Emergenza Coronavirus: "Perché domani i nostri figli sappiano cos'è successo"

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2 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

LE VITE POTENZIALI

Le serate ai tempi del corona sono, per forza di cose, serate “chiuse” tra le mura domestiche.

Mentre la famiglia si riunisce di fronte al televisore ne approfitto per sistemare l’archivio della libreria di casa.

E tra le mani mi ritrovo, quasi senza accorgermene, un libro particolare. Un libro che rimanda ad un’esperienza che feci due anni orsono.

Capitò infatti, per una serie di fortunate coincidenze, che mi ritrovai nella giuria popolare del Premio Campiello.

Tra i 5 libri finalisti sui quali fui chiamato ad esprimere un giudizio uno in particolare mi piacque, quello che ora stringo in mano: “Le vite potenziali” scritto da Francesco Targhetta (per la cronaca arrivò secondo).

Un libro che trattava il tema delle potenzialità più o meno espresse delle nostre vite.

I farò, i sarò che poi restano perduti nel tempo.

Lo trovo assolutamente attuale.

Se vogliamo trovare un senso nel dolore e nella violenza dello tsunami che ci ha travolto lo possiamo trovare nelle nostre potenzialità nascoste.

E’ in momenti di crisi che ognuno di noi, messo di fronte alla propria fragilità umana, può comprendere quali siano veramente le proprie aspirazioni, i desideri inespressi, i bisogni celati anche a noi stessi.

Le vite potenziali sono tutto ciò che potremmo essere se solo volessimo, sono tutto ciò che potremmo scoprire di essere.

Ha scoperto le sue potenzialità l’amico chirurgo che appena assunto ha imparato a gestire ventilazioni ed emogasanalisi con una rapidità impensabile. Ora quando ci incrociamo in corridoio scherzo con lui sul fatto che non ci chiederà più consulenze cardiologiche.

E’ uno scherzo, ma solo in parte.

In queste settimane vedo medici e infermieri esprimere potenziali enormi.

Si aiutano, si supportano, imparano con una velocità superiore a quella dei 20 anni e degli anni universitari nonostante oggi abbiano anche 40, 50 o 60 primavere alle spalle.

Ho scoperto le potenzialità di chi fuori dell’ospedale ha trovato energie, risorse e capacità organizzative nel reperire aiuti, materiali e attrezzature come e spesso meglio delle istituzioni stesse.

Ho scoperto le potenzialità di un gruppo di studenti del Liceo Scientifico Avogadro che insieme al loro professore hanno scoperto di poter dare un contributo eccezionale nell’affrontare la carenza di maschere per la ventilazione.

Ho scoperto le potenzialità di tanti cittadini. Persone che hanno trovato la forza di isolarsi. Che hanno trovato la forza di chiudere la loro attività (e di questo parleremo prossimamente).

Ora si tratta di guardare avanti, a quelle vite potenziali che ci attendono oltre l’ostacolo.

Un paese da far ripartire insieme.

Magari qualche sogno nel cassetto da tirar fuori, spolverare e realizzare.

Perché nella vita troppe volte osserviamo cassetti chiusi rimandandone l’apertura.

Poi arriva una guerra o una pandemia e ci accorgiamo che non siamo eterni e che avere sogni senza realizzarli è come avere nell’armadio uno splendido vestito mai usato per paura di rovinarlo ed accorgersi un giorno di non poterlo più mettere.

Questo ci deve insegnare questa pandemia.

2 di Aprile … apriamo i nostri armadi …

1 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)

IL GIRO DI BOA?

Era inevitabile.

Gli impegni crescenti, i turni, l’isolamento casa-lavoro.

Le riunioni, i continui cambi di mansione.

Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui dire <<basta>>.

<<Il diario chiude>>.

Troppe energie, troppo tempo. Così, un po’ a sorprendendo anche me, termino l’opera.

Altri scriveranno e racconteranno le prossime settimane, altri saranno testimoni degli avvenimenti che ancora devono accadere. Passerò dalla parte del lettore, dell’osservatore.

Un caro saluto dunque a tutti e grazie per la compagnia nel viaggio sino a qui, grazie della vicinanza.

Ci incontreremo fuori, è una promessa, appena sarà possibile.

Un abbraccio a tutti.

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O forse no?

Forse è solo il 1° di Aprile e non ho resistito. Anzi, è proprio così, un pesce d’aprile!

Perché sono convinto che sapersi prendere ancora in giro nonostante tutto il buio che ci circonda sia essenziale.

Prendiamoci il tempo per una risata con gli amici in chat, uno scherzo in famiglia. Una battuta tra vicini di balcone (a debita distanza mi raccomando).

Ridiamo di questo 1° Aprile insieme. La risata rinforza il sistema immunitario. Una risata liberatoria servirà a darci forza quando sarà il momento di far ripartire il motore di questo paese.

Un sorriso non sarà una mancanza di rispetto per chi soffre, sarà un modo di trasmettergli positività.

A tornare seri, domani, ci sarà sempre tempo.

Ed eccoci dunque qui a quello che speriamo sia un giro di BOA.

Alle spalle il mese di marzo, le sue incertezze, le sue lezioni, i suoi errori, le persone care che ci hanno lasciato. La sua solitudine, le sue code ai supermercati, l’ansia di chi non ha avuto uno stipendio da portare a casa (e di questo parleremo a breve).

Ma anche la determinazione di molti, la creatività (penso ai ragazzi del Liceo Scientifico che hanno collaborato con i professionisti ospedalieri per lo studio di una maschera “artigianale” per la ventilazione). La bontà d’animo di chi ha donato.

Se Aprile sarà un giro di boa saranno i prossimi giorni a dircelo.

Attendiamo il plateau della curva dei contagi, una linea piatta mai così agognata prima di oggi e poi la sognata discesa magari a fine aprile, più probabilmente a Maggio.

Sapendo che alle prime buone notizie dovremo resistere alla tentazione, umana, di scappare, allentare la sicurezza. Se lo facessimo sarebbe come gettare al vento tutti i sacrifici di Marzo e Aprile.

“Aprile dolce dormire” recitava una filastrocca sentita da bambino.

Che bello sarebbe addormentarsi e svegliarsi a Maggio in piena discesa e iniziale seppur lento rientro ad una vita normale.

Ma non è ora di dormire.

Dentro gli ospedali bisognerà mantenere la stessa attenzione di marzo, non concedere niente al virus, nessun calo di tensione, nessuna omissione.

Fuori bisogna aver la forza di fare progetti, pensare al mondo di domani.

Vedere opportunità per ripartire, ricostruire.

Costruire non solo l’economia ma anche i rapporti personali.

Un nuovo umanesimo.

1 di Aprile … buon “pesce” a tutti …

31 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

SOTTO UNO STESSO CIELO

Giornata faticosa. Si attende l’inversione di rotta che ancora manca.

Il susseguirsi di riorganizzazioni e nuove procedure costringe ad un continuo senso di instabilità.

Una sorta di sindrome vertiginosa. Mancano punti fermi, tutto gira.

Diario ”geografico”, oggi.

Come altre volte cerco ristoro nei miei libri o, come questa questo pomeriggio, nelle antiche carte.

Le mie attenzioni si concentrano su una carta geografica risalente al XVIII secolo (foto 1 allegata) che rappresenta una visione ancora pionieristica del nostro pianeta. Sono affezionato a questa carta perché la sua rappresentazione del Nord America con l’inserimento di un mare “interno” parla di un mondo ancora da scoprire. Il “Far West” americano ancora lungi dall’essere esplorato rappresenta un’incognita (ci vorrà ancora un secolo per poter disegnare bene le carte della costa occidentale).

Tutto gira intanto, come la Terra. Oggi a differenza dell’incisore settecentesco Remondini, autore della carta citata, sappiamo rappresentare bene la Terra.

Oggi conosciamo in ogni suo angolo questo ammasso quasi sferico di roccia, acqua, ferro, silicio, magnesio e nichel che supporta (e sopporta) circa 7,8 miliardi di persone, divise sotto le bandiere di 206 stati. Gli esseri umani che lo colonizzano si stima parlino tra le 6000 e 7000 lingue differenti e 30.547 siano le religioni, dottrine, scuole filosofiche, credenze, sette e culti tribali.

Un arcobaleno, una varietà culturale che, purtroppo, invece di arricchirci ci ha diviso nei millenni.

Poi un giorno arriva il Corona (ma anche la famosa “Spagnola” in tempi moderni). E le barriere cadono. Il virus è democratico, neutro… o almeno così sembra.

Se osserviamo con maggiore attenzione con il passare delle settimane, infatti, scopriamo che qualche differenza il COVID, dopotutto, la fa.

Due cose stiamo notando.

La prima: gli uomini sono più colpiti delle donne non tanto in termini di contagio generale quanto in termini di evoluzione in polmonite da COVID. SI ipotizza un ruolo protettore degli estrogeni, ma solo il tempo darà risposte.

La seconda (più personale): Osservando i dati OMS il numero maggiore di contagi sembra concentrarsi in una fascia intermedia sopra l’equatore e sembrano ridursi spostandoci verso il polo nord. Questa osservazione al momento trova riscontro nei bassi numeri di contagiati (ma soprattutto di affetti da polmonite COVID correlata con relativa necessità di accesso alle terapie intensive) non solo in Russia ma anche nei pesi scandinavi e Germania stessa. Se posiamo lo sguardo lungo un planisfero moderno vediamo come Spagna, Italia, Cina, USA si trovano sul 40° parallelo lungo il quale sembra raccogliersi il maggior numero di contagi. Presto per dare una spiegazione. La mia è solo un’osservazione personale, nessuna velleità di valore scientifico. Potrebbero esserci problemi di raccolta dati, soprattutto in nazioni meno sviluppate, a confondere i dati. Potrebbero esserci fattori ambientali e perché no, magari genetici.

L’occhio corre di nuovo all’antica carta. Rimanda ad un’epoca nella quale circumnavigare il globo richiedeva mesi di viaggio.

Ai tempi del Corona il virus ha impiegato invece solo poche settimane, 1 mese al massimo a raggiungere ogni posto abitato sulla Terra (fatta eccezione a quanto pare della base internazionale in Antartide che viene considerata ad oggi l’unica comunità umana civilizzata COVID-free censita).

Viaggia veloce il virus, non bada a confini fisici o politici. Non bada a bandiere.

Eppure ha paura di noi.

Se ci chiudiamo tutti in casa, come stiamo facendo, il suo viaggio si arresta e lo può fare tanto velocemente quanto velocemente si è prima diffuso.

Se ognuno di noi esce con la mascherina lo fermiamo al motto “io proteggo te, tu proteggi me”

Non molliamo quindi. Ognuno di noi se segue le indicazioni date può essere il poliziotto di frontiera che bloccherà il corona. Estrarre allora paletta e distintivo, al lavoro.

31 di Marzo … << Documenti, prego >> …

Foto 1: Carta Generale du Globe Terrestre – 1761. La freccia indica un “mare interno” nel nord america che non esiste

Foto2: Dati WHO 20/3/20 – diffusione mondiale (numero contagi) Coronavirus COVID-19

30 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

NOTTURNO OSPEDALIERO

Un diario notturno, questa volta.

Le notti di guardia in ospedale hanno sempre avuto un fascino sottile.

Si entra in ospedale quando l’ospedale si svuota, si incrociano visi di operatori stanchi, tirati, che sorridono al sollievo della “stimbratura”. Lo sguardo compassionevole del collega che ti passa a fianco << Inizi?>>.

<< Si, inizio.>>

I pochi metri dalla timbratrice al reparto sono uno spazio dilatato. Si misura ogni passo.

Perché sono i metri che separano la vita fuori da quella dentro. La quiete prima della possibile tempesta.

Prima di aprire la porta del reparto non sai mai cosa ti attende oltre. Una notte tranquilla? 12 ore di lavoro intenso? Poi giri la maniglia e vieni risucchiato.

Le notti di guardia prima dell’era COVID erano notti spesso caratterizzate da un silenzio surreale rotto a tratti da una strana sinfonia.

Un concerto di suoni “variopinti”, una cacofonia di colori gettati a caso sulla tavolozza. I “BIP” delle pompe infusionali si sovrapponevano ai cicalini dei monitor UTIC (Unità Coronarica) senza un ritmo predefinito. Il sommesso vociare che giungeva dalla sala infermieri. Il sottofondo un po’ gracchiante della televisione il cui segnale digitale saltava spesso e volentieri (ricordava a tratti un grammofono con la puntina usurata).

Il rumore sordo e regolare dei passi solitari di un infermiere nel corridoio buio accompagnato dal balenio della luce della torcia in movimento.

Uno sfarfallio del solito neon che minacciava l’abbandono da mesi ma poi non mollava e restava incrollabile al suo posto.

La luce mutevole dei monitor che illuminavano a spot il buio del reparto come piccole aurore boreali.

Questa notte, la notte dei colleghi che sono di guardia in area COVID, è diversa.

Alla sinfonia si aggiunge un “tono” di fondo.

Lo si percepisce appena entrati. E’ un soffio, un sussurro, un alito sottile.

Tornano in mente i ricordi delle esperienze americane. I congressi mondiali di cardiologia in Florida. Chi è stato da quelle parti almeno una volta sa di cosa parlo. Per loro il condizionamento è una ossessione. Temperature glaciali nei centri commerciali o sugli autobus che costringono (con temperature esterne estive) a tenere maglioni e sciarpe. In quei luoghi era caratteristico il rumore costante dell’aria emessa dai potenti climatizzatori.

Ed ora, nel silenzio della notte, nell’ospedale ai tempi del corona quel rumore lo ritrovo.

Non è il condizionamento.

E’ il rumore delle decine e decine di maschere di ventilazione ad alto flusso.

Lo strumento che rappresenta la principale cura (in attesa di capire quanto i farmaci e quali incidano veramente) per chi è stato colpito a livello polmonare dal virus.

Per chi passa ore in quei reparti quel rumore di fondo penetra in profondità, lo si porta a casa (un ronzio nelle orecchie) insieme ai segni delle maschere ffp2. Credo sia capitato anche ad altri colleghi dopo turni lunghi anche di 12 ore di tornare a casa e avere la netta sensazione di indossare ancora la maschera: la chiamo la “maschera fantasma”.

Alla fine di questa lunga maratona, quando potremo guardare indietro e tentare di riordinare ricordi e emozioni, avremo molte maschere fantasma da toglierci.

Intanto la notte prosegue.

Si controllano parametri, si regolano flussimetri.

E si cerca di conservare le forze. Perché dopo la notte seguiranno riunioni in giornata.

Riunioni operative. Si andrà ad ascoltare a che punto siamo. Cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo ancora trasformare, cosa dobbiamo cambiare, come dobbiamo plasmare l’ospedale in questo riadattamento continuo cui ci costringe la battaglia contro questo virus.

E nel silenzio della notte percepisco in modo chiaro e cristallino il mio respiro. Un gesto tanto scontato prima quanto prezioso oggi. Nel buio metto il dito nel saturimetro portatile… 98%. Bene.

Lontani nell’animo i tempi delle lotte sindacali per gli stipendi e le condizioni di lavoro (che sino a Febbraio parevano l’essenza di tutto), oggi la gioia sta in quel numerino. Oggi va bene, si può andare avanti, ma in silenzio, dopottutto è notte fonda.

30 di Marzo … domani è un altro giorno …


29 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

BREVE STORIA DI UN DIARIO “IMPERFETTO”

E’ domenica, e come altre domeniche è tempo di osservare la settimana appena trascorsa e fare qualche bilancio.

Una settimana complessa come ci aspettavamo.

Grafici ancora puntati in alto.

Forse, e dico forse, cominciano a puntare un po’ meno in alto (il dato non è chiaro), ma è evidente che le terapie intensive del nord sono in forte affanno, quasi al default.

Riunioni in videochat con colleghi da tutto il Piemonte, un confronto continuo.

Si conta.

Si fa la conta dei colleghi malati, la conta delle protezioni carenti. La conta dei letti riconvertiti, delle sale operatorie chiuse. La conta dei posti in terapia intensiva.

Gli sfoghi di chi non ce la fa più, lo sprone di chi ha ancora energie, animi che si scaldano e animi che si riappacificano, il positivo e il negativo.

E’ ancora presto per fare previsioni, nessuno in realtà le sa fare, e non è comunque lo scopo di questo diario.

Per ora si vive alla giornata.

Intanto il diario è ormai un adolescente e come tutti i suoi coetanei scalpita per scoprire il mondo.

Così, da questa settimana, queste pagine vengono ospitate sul sito UPOALUMNI e sul sito/pagina facebook della Famiglia Nuaresa, che ringrazio per la sensibilità con la quale ha presentato il diario.

Una condivisione che ho accolto con gioia perché sono profondamente convinto che il comunicare pensieri ed emozioni sia una delle strade per sopravvivere al nostro isolamento.

Certo, devo essere sincero, un po’ di paura comincia a fare capolino.

Il diario era inizialmente uno sfogo, una mia necessità intima di raccontare e condividere, ora mi accorgo che è diventato qualcosa di più. Il diario ha convolto tante altre persone che si aspettano le pagine serali e hanno bisogno di leggerle, come io ho bisogno di scriverle, per allontanare il senso di solitudine, per guardare oltre l’ostacolo, per sperare.

Come farmi perdonare allora qualche imprecisione o qualche svista?

Forse raccontando come nasce il diario, ogni giorno.

Lo strumento, essenziale, con cui scrivo è il tablet.

Ma come potete immaginare in area COVID o sospetta tale un tablet non può entrare “nudo”.

Dunque eccolo imbustato (foto 1). Poi serve una penna. Le dita in questo caso. Con uno o due paia di guanti sovrapposte.

Ovviamente anche camice e sovracamice che rendono i movimenti impacciati.

Ovviamente maschera d’ordinanza.

Ora immaginate tutto questo, un tavolino, un caffè da bere (a volte insieme ad uno yogurt che rappresenta il pranzo) con cannuccia se possibile e pochi minuti per riordinare idee e scriverle di getto.

Aggiungiamo l’ipossia cerebrale legata al fenomeno del “rebreathing” (l’inspirazione in questo caso della propria CO2 emessa con l’espirazione ma intrappolata nella maschera).

Perché non scrivere alla sera?

Qualche volta, quando la giornata ospedaliera non ha concesso una pausa sufficiente, il diario viene effettivamente scritto alla sera. Scritto con quella stanchezza più psichica che fisica, quella stanchezza che ti salta addosso dopo una giornata di tensione, di preoccupazioni, di dubbi e paure, di condivisione del dolore. In quelle occasioni serali si scrivono di getto i pensieri e le impressioni maturate durante la giornata, senza molto tempo da dedicare a rilettura e correzioni, mentre lì accanto i bambini reclamano un papà fin troppo assente.

Ecco insomma tutte le attenuanti che ho per gli eventuali errori commessi. Chiedo alla “giuria” di tenerne conto (attenuanti documentate nelle foto allegate) e di avere clemenza.

Da domani una nuova settimana inizia. Da vivere e da raccontare in modo “imperfetto”.

29 di Marzo… io speriamo che scrivo bene …

28 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

IL GIORNO CHE IL SOLE SPARÌ

Immaginatevi di uscire all’aperto in una splendida giornata estiva.

E’ mezzodì. Il cielo è terso, non una nuvola.

Un caldo abbraccio di luce e l’afa vi avvolge.

Poi volgete lentamente gli occhi al cielo.

Inizialmente non notate nemmeno cosa manca.

Così anche noi, all’inizio, non ci siamo resi conto di quello che mancava (ma questo lo spiegheremo a breve).

Torniamo alla nostra giornata di sole… ecco, appunto, il sole.

Immaginate di girare lo sguardo e di accorgervi che non c’è il sole.

Qualcosa che abbiamo sempre dato per scontato al punto da non realizzare subito la sua assenza.

Ma non c’è. Se ne è andato.

E così è successo a noi medici.

All’inizio era solo coronavirus.

Il suo arrivo aveva cancellato tutto.

Le nostre forze, i nostri pensieri, tutta l’adrenalina era diretta verso di lui.

Inventarsi nuovi ruoli e specialità, ridisegnare i reparti, i percorsi, le nuove terapie.

Imparare a riconoscere i sintomi.

E’ fu così che nella prima settimana convulsa, quando tutto il paese fu travolto dall’onda non prevista dagli esperti, non ci accorgemmo dell’assenza del sole.

Ora, al volgere della terza settimana della pandemia italiana dobbiamo non solo renderci conto che manca il sole, dobbiamo cercarlo.

Vi chiederete ormai di quale sole parlo. Il nostro “sole” sono le altre patologie.

CI sono voluti giorni per capire che stavano sparendo, come il nostro astro in quel giorno d’estate immaginario.

Gli accessi DEA o le visite urgenti per patologie che non siano respiratorie/febbrili sono crollate, quasi cessate del tutto.

In ambito cardiologico una settimana fa l’ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) del cui direttivo regionale piemontese faccio parte da 2 anni, segnalava che i ricoveri per infarto miocardico acuto si sono dimezzati da inizio marzo. DIMEZZATI.

E’ presto per avanzare ipotesi, lanciarsi in fantasiose ricostruzioni (ad esempio che la reclusione domestica e l’assenza di stress correlato al lavoro abbia ridotto tale patologia).

Temiamo noi specialisti che la ragione sia un’altra e cioè che a vincere su tutto sia stata e sia la paura.

La paura di entrare in ospedale. La paura del contagio.

Entrare in ospedale oggi vuol dire misurare la temperatura, passare dal filtro di un pre-triage per escludere (per quanto possibile) di essere portatore del virus. Incute timore la procedura ma guardiamola da un altro punto di vista: è la garanzia che facciamo di tutto per mantenere “puliti” i percorsi che debbono esserlo.

Certamente tutto ciò che non è essenziale può essere e deve essere rinviato, ma con la salute non si scherza.

Ascoltate allora il vostro corpo, cercate il vostro sole.

Noi siamo ancora qui, negli ospedali, anche per voi. Magari ricoperti di plastica e nascosti da maschere. Ma quelle plastiche e maschere con cui vi riceviamo sono pulite e sono anche a vostra protezione.

Non scherzate con il cuore, non dimenticate il sole.

Il corona passerà ed il vostro cuore sarà ancora lì a battere per voi, abbiatene cura (ma vale anche per tutto il resto del nostro corpo).

Ci siamo, ricordatelo.

28 di Marzo … il sole tornerà a splendere …

27 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

L’ARTE DELLA GUERRA

Questa pagina del diario è particolare.

Per affrontarla dovremo violare la zona rossa tutti insieme e intraprendere un viaggio che ci porterà lontano nel tempo e nello spazio.

Il viaggio ci porta infatti in Cina, nello stato di Qi (Cina Settentrionale) nel VI secolo a.c.

Qui potremmo imbatterci, se la fortuna ci sorride, in un testo stampato su listelle di bambù.

Lo ha appena dettato allo scriba un uomo alto dalla postura elegante.

Il testo che abbiamo di fronte è più antico trattato di strategia militare: “L’arte della guerra” ed e il suo autore che abbiamo appena incontrato è un importante generale (nonché filosofo) cinese: Sun Tzu. Senza entrare nelle diatribe storiche sulla reale identità di Sun Tzu ci basti sapere che il suo testo di strategia militare era destinato ad attraversare il fiume del tempo ispirando nei secoli grandi condottieri e nei tempi moderni anche capitani d’impresa.

Ma perché parlare qui, sul diario del Corona, dell’arte della guerra di Sun Tzu?

Da settimane in tutto il mondo affermiamo si stia combattendo una guerra contro il virus.

Perché, mi sono domandato allora, non analizzare questa guerra con gli occhi del generale Sun TZU? Cosa avrebbe fatto il più grande stratega di tutti i tempi?

Come vedrete non pochi sono gli spunti di riflessione, partiamo da alcuni concetti espressi da Sun:

1. << il più grande condottiero è colui che vince senza combattere>>

Attualissimo. Non è forse questo l’obiettivo della pesantissima restrizione della libertà personale cui siamo sottoposti? Se ci isoliamo tutti il virus si estingue per impossibilità a trovare nuovi ospiti. Vinciamo la guerra senza che il nostro corpo debba combattere sul campo di battaglia. Ottima strategia Sun!

2. << Conosci il nemico, conosci te stesso, mai sarà in dubbio il risultato di 100 battaglie>>

Conoscere il virus è essenziale, conoscere la sua trasmissibilità, le sue tecniche di attacco del nostro organismo, le sue strategie di camuffamento nei portatori sani. E’ un nemico insidioso e decine e decine di centri di ricerca sono al lavoro. Conoscere noi stessi vuol dire ascoltare il nostro corpo, percepire cambiamenti, non diventare diffusori del virus ignorando sintomi e segni.

3. << I soldati vanno trattati innanzitutto con umanità, ma controllati con ferrea disciplina, questa è la strada della vittoria>>

Medici e infermieri sono l’esercito attuale. Sulla ferrea disciplina ci siamo, sin dall’inizio. Per quanto riguarda l’umanità con cui sono stati trattati credo invece che le istituzioni dovrebbero rileggere Sun Tzu. A fine crisi regaleremo qualche copia dell’”Arte della guerra” a qualche loro rappresentante.

4. Un risultato superiore consiste nel conquistare intero e intatto il paese nemico. Distruggerlo costituisce un risultato inferiore >>.

Questa affermazione è l’essenza del curare. Se ci pensiamo bene si applica al coronavirus quanto alle terapie chemioterapiche oncologiche. Vinciamo se riusciamo a trovare una terapia che sconfigga il nemico senza che distrugga contemporaneamente il corpo. Questo potete comprendere rende arduo lo sperimentare farmaci in tempi ristretti ed in situazione di emergenza. Tutti vorremmo provare tutte le armi a disposizione, tutti i farmaci sperimentali, ma attenzione, se alla fine della guerra abbiamo distrutto anche il territorio abbiamo perso. Ed ecco allora l’ultimo punto, molto importante.

5. << Chi è prudente, e aspetta con pazienza chi non lo è, sarà vittorioso >>

La prudenza, l’uso delle protezioni, il lavaggio frequente, tenere le distanze. L’uso dei farmaci secondo scienza e coscienza senza lasciarsi trasportare dalle mode giornaliere, da youtube o dalle promesse miracolistiche ma misurando di giorno in giorno efficacia e rischi. La prudenza sarà premiata. Anche in tempi di coronavirus.

Dopo questa pandemia chissà, forse nel corso di studi medicina troveremo spazio per Sun Tzu e la sua “arte”.

Ora torniamo tutti alla nostra battaglia quotidiana, sapendo che non siamo soldati allo sbaraglio, siamo un esercito di milioni di persone. Combattiamo insieme, vinciamo insieme.

27 di Marzo … armiamoci e partiamo …

26 di Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

ELOGIO DEL PENSIERO POSITIVO

Gira un video motivazionale in questi giorni e tra le altre cose descrive un esperimento particolare.

Te ne parlo caro diario perché nella sua semplicità veicola un messaggio molto importante.

Prima di tutto, però, una premessa è d’obbligo: non ho mai considerato queste pagine come un luogo di informazione scientifica. Credo che in questo momento siamo già troppo “bombardati” da esperti, presunti esperti, BIG della virologia che battibeccano tra loro, santoni dell’epidemiologia più o meno autoreferenziali. Siamo circondati di numeri, tabelle, grafici che impennano colorati puntando verso le stelle.

Su queste pagine cerco invece di riordinare idee, emozioni e di fare qualche riflessione.

Cerco di dare un ordine personale, soggettivo alla grande confusione del momento.

Era iniziato come un monologo interiore questo diario, uno specchio cui parlare la sera. Poi è divenuto altro, ho visto oltre lo specchio ed ho trovato una moltitudine che desiderava condividere emozioni, raccontarsi, centinaia di persone, uomini e donne di tutte le età e professioni.

Ma torniamo al filmato ed al suo messaggio, si parlava di un esperimento.

Due gruppi di topi. Il primo veniva sottoposto 24 ore su 24 all’ascolto di miagolii di gatto registrati, l’altro gruppo ascoltava musica classica. I due gruppi mostravano nel tempo un diverso andamento del loro stato di salute con il primo gruppo che tendeva ad ammalarsi precocemente. Lo stress, la paura, la depressione li rendevano più vulnerabili.

Uno studio dell’Università di Chicago (unica divagazione scientifica promesso) ha mostrato come l’isolamento e lo stato depressivo indebolisce la risposta immunitaria ed aumenta il livello di infiammazione nei primati (uomini ed in quel caso anche macachi) e ci sono in letteratura una moltitudine di studi in tal senso.

Cosa ci insegna tutto questo? Che la rincorsa alle notizie catastrofiche, i bollettini di guerra dei morti e contagiati servono per gli addetti ai lavori. Non ad altri.

Dati peraltro che mostrano grosse incertezze, frazioni di cui nemmeno si conosce con certezza il denominatore.

Il confine tra dovere di informare (perché la gente comprenda la necessità di misure eccezionali di contenimento) e il generare paura e depressione è labile.

Siamo sommersi in questi giorni di immagini forti. Penso (ne sono fortemente convinto) che ora che il problema è compreso sia arrivato il momento di cominciare a guardare oltre.

Dell’ostacolo siamo ormai consapevoli e se la nostra vista si focalizza solo su quello andremo a sbattere. Se al contrario alziamo lo sguardo scopriremo che per quanto alto possa essere l’ostacolo dietro c’è vita, futuro, corse all’aria aperta in compagnia.

Dobbiamo vincere l’isolamento, vedere parenti e amici in videochat, telefonare agli anziani, magari l’anziano vicino di casa per sentire semplicemente come sta e fargli sentire una voce.

Dobbiamo concentrare la nostra mente sui pensieri positivi. Dobbiamo guardare oltre il muro. Fare progetti per il dopo. Prendere carta e penna e immaginare una vita da ripensare, nuovi obiettivi, nuove priorità.

Pensiamo alla vita che alla fine vince sempre. Ieri dopo la lettera scritta a Italo, nato nel 2020, alcuni di voi mi hanno raccontato di figli e nipotini nati in questi mesi cui leggeranno la lettera di Italo. Sono loro la nostra forza. Sono la generazione zero che ricostruirà imparando dai nostri errori.

Pensieri felici dicevamo.

Osservo questa sera sullo scaffale una prima edizione di “Peter Pan” cui sono molto affezionato (nell'immagine allegata illustrazione originale di Arthur Rackham, illustratore di epoca vittoriana cui si deve la prima immagine di Peter Pan).

Leggiamo due righe insieme:

<< nel momento stesso in cui dubitate di poter volare, cessate anche di essere in grado di farlo>>

<< Dovete fare pensieri dolci e meravigliosi. Saranno loro a sollevarvi da terra >>

Ricordiamoci dei suoi pensieri felici. I suoi pensieri felici permettevano di volare, i nostri possono rinforzare il nostro sistema immunitario ed in tempi di Corona non è poco.

Buon pensiero positivo a tutti!

26 di marzo … Chi vuol esser lieto, sia …

25 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

A PROPOSITO DI GABBIE E DI PESCI ROSSI

Ieri un mio social-amico ha scritto un post nel quale affermava di rivedere la sua opinione circa l’efficacia della detenzione domiciliare alla luce dell’esperienza di confinamento di questi giorni.

Devo essere sincero: ho spesso considerato anche io gli arresti domiciliari come una detenzione troppo “leggera” ed a volte poco comprensibile.

Ma questa detenzione domiciliare cui oggi tutti siamo “condannati” dal coronavirus cambia le carte in tavola. Ha ragione l’amico del post.

Le mura domestiche si fanno via via più strette ogni giorno che passa.

I metri quadri si riducono, lo spazio elastico si comprime. Un big bang all’incontrario.

Ed ognuno reagisce con tecniche differenti alla prigionia.

C’è chi decide di tenersi impegnato con lavori di manutenzione rinviati da una vita (ma servono strumenti e pezzi di ricambio non più così semplici da reperire). Chi si scopre (o si crede) masterchef, chi si improvvisa pittore neo-realista o chi illuminato sulla via di Damasco si riscopre cultore delle arti musicali.

C’è anche (e pare siano la maggioranza) chi ha fatto del percorso divano–letto-cucina-divano una sorta di circuito podistico a tappe. Si cronometra, migliora i tempi costantemente in una gara contro se stesso. Agonismo spinto all’estremo.

La televisione e internet diventano l’oppio moderno.

E’ di questi giorni l’allarme lanciato dagli esperti circa l’aumento impressionante e vertiginoso del traffico internet. TV on-demand e video-chat per smartworking e lezioni delle scuole a distanza stanno mettendo a dura prova tutta l’infrastruttura portante della rete. Al punto che i grandi servizi come Netflix e PrimeVideo annunciano di dover abbassare la risoluzione ed il bit-rate (si ridurrà cioè la fluidità delle immagini) per poter continuare a garantire il servizio.

Pensate se all’isolamento dovesse affiancarsi un crollo della “rete”… sarebbe un evento catastrofale (siamo più in grado oggi di vivere e comunicare senza rete?).

Ed i bambini?

Osservo il mondo attraverso gli occhi di due osservatori particolari di 12 e 4 anni.

Il mondo di mia figlia dodicenne ai tempi del corona è un mondo fatto di chat, video lezioni, app e programmi per la gestione dei contatti. Smartphone, tablet e PC diventano estensioni del corpo che permettono di abbandonare la zona rossa in sicurezza. Una vita che si “virtualizza”.

Poi c’è il mondo che osservo con gli occhi dei 4 anni del mio piccolo “attila”. Un bimbo vivace, chiacchierone, vulcanico, con quella forza vitale che quell’età ti dona quando cominci a prendere coscienza di un’intero mondo che aspetta solo di essere scoperto ed esplorato da te.

E’ lui la mia “tigre in gabbia”. In lui rivedo quegli animali che negli zoo si vedono girare senza sosta e senza meta in circolo come criceti in un ruota. Sono movimenti stereotipati, ripetitivi.

Così i più piccoli corrono, su e giù, da un lato all’altro della casa in una corsa senza fine.

Unico momento di libertà il breve viaggio tra casa dei nonni e la nostra quando siamo al lavoro, in ospedale. In quel momento, in quelle poche centinaia di metri, paiono piccoli pesci rossi in una boccia che guizzando verso il cielo, fuori dall’acqua, assaporano nel breve tragitto del volo il gusto frizzante dell’aria fresca.

25 di marzo … andiamo allo zoo a vedere le tigri feroci …

24 Marzo a.d.c. (Anno del Corona)

LETTERA A ITALO, NATO (immaginario) dell’anno 2020

Anno 12 n.d.c. (Nuova Datazione Corona) – 2032 (vecchia datazione)

Caro Italo,

Buon compleanno.

I 12 anni sono un traguardo importante. Comincia la tua adolescenza e con essa la consapevolezza maggiore del mondo che ti circonda, di come oggi funziona e di come funzionava prima, prima dell’anno zero.

Lo hai studiato a scuola alle elementari l’anno zero, l’anno in cui sei nato.

L’anno in cui il mondo è cambiato.

Ti hanno insegnato che un virus trovò impreparati proprio quei paesi che pensavano di essere più civili e avanzati, quelli che pensavano di essere al sicuro forti delle loro economie o del loro servizio sanitario. Quelli delle buone maniere, dell’istruzione avanzata, del progresso tecnologico.

Ti hanno insegnato che al contrario delle aspettative le istituzioni vacillarono, arrancarono.

Di come non indietreggiarono invece medici e infermieri e di come combatterono.

Ti hanno raccontato di come la grande generosità delle persone intervenne a colmare i vuoti. Gesti piccoli e grandi che permisero a chi era in prima linea contro il virus di proseguire la battaglia.

Ti hanno spiegato che per quella generazione di dottori, infermieri, tecnici, dentro gli ospedali e fuori sul territorio, fu una battaglia campale.

Tu non puoi immaginare come era, quel mondo, con gli occhi di oggi.

Oggi, nell’anno 12 n.d.c. i posti di terapia intensiva negli ospedali italiani sono adeguati alle necessità della popolazione.

Oggi si è compreso che la sanità non è un “costo” ma un bene essenziale per la vita e la serenità dell’intera popolazione e si investe di più consci che si investe in “vita”.

Oggi si è compreso che proteggere, da subito, chi lavora in prima linea negli ospedali è essenziale per limitare i contagi e consentire di curare a pieno regime.

E’ un mondo che ha compreso i suoi errori qui, oggi nel 2032 vecchia datazione.

Ma in quell’anno, nell’anno 2020, le cose furono difficili.

Mentre nascevi il mondo si bloccava, fermava la sua rotazione. Si fermava l’alternanza del giorno e della notte. Si fermavano i calendari. Gli orologi muti testimoni di giornate interminabili.

E non vi era più differenza tra una domenica e un lunedì, una settimana o l’altra, un mese o l’altro.

Bloccate le fabbriche, gli uffici, le feste religiose e non religiose. I nonni separati dai nipoti.

Le code ai supermercati rigorosamente a 1,5 metri di distanza. Gli occhi che si scrutavano dietro maschere variopinte (e non era carnevale).

Pensa Italo, la gente si dimenticò anche di ammalarsi. Perché in quel periodo a parte il “corona” “sparirono” come per magia altre malattie, o meglio non sparirono, ci fu solo paura di recarsi in ospedale e di essere contagiati e questo portò molte persone a sottovalutare sintomi e segni del corpo.

Nell’anno 2020 si comunicava a distanza, i contatti erano vietati, la polizia e l’esercito scendevano per strada per bloccare, giustamente, gli spostamenti.

Ora puoi capire, Italo, quello che accade, da allora, ogni mese di marzo: la festa della vicinanza.

Sin da piccolo sei abituato. Nel mese di marzo vi è un giorno in cui tutti si salutano, si stringono la mano, si abbracciano. Sul lavoro, per strada, a scuola, in coda alla stazione. Quella vicinanza, quel giorno della memoria, ricorda il contatto umano che perdemmo nel 2020, ricorda quanto ci costò.

Ci ricorda che dobbiamo imparare ad avere cura di noi e della persona accanto. Ci ricorda che la salute è il nostro bene più prezioso.

Ci ricorda che siamo tutti essere umani, senza distinzioni.

Caro Italo, un abbraccio.

24 di Marzo … andiamo a prendere il francobollo …

23 Marzo a.d.c. (Anno Del Corona)

TOCCARE O NON TOCCARE, QUESTO E’ IL PROBLEMA

Diciamocelo, chi non ha creduto per buona parte della vita di essere “immortale”?

Se non vivessimo nella finta presunzione di immortalità non faremmo progetti a lungo termine, non investiremmo anni della nostra vita per divenire qualcuno o per costruirci una carriera.

Poi un giorno si incontra la malattia.

Le prime esperienza da bambino cominciano a insegnarti la fragilità, a piccole dosi.

Poi i fortunati crescono con piccoli inciampi e nulla più.

Sino a quando, se così vuole il destino, si incontra la malattia, quella seria.

Le malattie cardiovascolari, le malattie oncologiche. Sono le nostre paure più grandi.

Quante volte abbiamo sentito scrivere o dire “è morto di un brutto male?”. Come se esistessero mali buoni.

Ma queste malattie, sino a quando siamo sani, le vediamo sempre con occhi di altri.

Proviamo compassione, tristezza, ma è altro, è qualcosa fuori da noi.

Non ci spaventa il contatto con il malato.

Possiamo stringere la mano ad un paziente oncologico, rincuorarlo, abbracciarlo, incrociare gli occhi da vicino.

Possiamo sederci vicino ad un paziente appena ripreso da un infarto esteso e raccontargli che il bicchiere è mezzo pieno, raccontarlo a lui che in quel momento vede solo quello mezzo vuoto. Perché il bicchiere mezzo pieno è la vita che ti da una seconda chance.

Possiamo fare tutto questo vicino a lui, fare nostre le sue lacrime e lui può vedere i nostri occhi inumidirsi.

Si chiama EMPATIA.

Questo il coronavirus ci ha portato via, la possibilità di mostrare la nostra empatia.

Perché questa volta la malattia del nostro paziente può divenire, con estrema facilità, anche la nostra.

Il paziente COVID è isolato. Isolato dal mondo, dai parenti, dagli affetti, da noi.

Per vederlo, per comunicare dobbiamo frapporre tra noi e lui doppi camici, doppi guanti, occhiali, visiera, maschera con filtro. E stare lontani.

Può essere un nonno che ha un nipotino appena nato.

Può essere un padre il cui figlio sta per laurearsi, sposarsi.

Può essere una madre che attende di divenire nonna.

Così i carrelli a fianco dei letti si riempiono di disegnini dei nipoti, lettere dei figli, pensieri del consorte.

Si torna a comunicare con la carta. Dove le condizioni cliniche lo consentono e il paziente ha un Device giusto si può tentare una videochat ma sono casi rari.

E comunque manca il contatto.

Qualche giorno fa sono passato in area COVID a trovare un carissimo amico. Sono rimasto sulla porta a parlare con lui. Ho dovuto mantenere le distanze proprio nel momento in cui invece due esseri umani vorrebbero potersi avvicinare. E’ la cosa che mi ha fatto più male.

Ricordiamocelo quando sarà finito tutto, non dimentichiamolo.

Quando potremo sfilare camici, riporre visiere e dimenticarci delle famigerate maschere ffp2/ffp3 ricordiamoci di quanto il contatto ci sia mancato oggi e di quanto sia importante nel processo di cura e del “prendersi cura”.

Ora rimetto i guanti, vorrei mica qualcuno mi toccasse…

23 di Marzo … guardiamoci negli occhi …

22 Marzo a.d.c. (Anno Del Corona)

CHI VUOL ESSER LIETO, SIA

A proposito di leggerezza dell’aria, diari ed epidemie

E’ domenica.

Giorno in cui bisogna (chi non è di turno) respirare.

Quanto ci siamo accorti in queste settimane di un gesto tanto scontato quanto unico: respirare.

L’unica cosa che facciamo ininterrottamente dal momento della nascita a quella della morte.

Ed in tempi di COVID questo atto appare tanto fondamentale quanto fragile e delicato.

Oggi mi giunge, al risveglio, la notizie di una persona, un grande professionista, che ho conosciuto e stimato negli anni di Medicina. Portato via dal corona.

Allora si inspira ed espira e si cerca, si deve cercare, la leggerezza dell’aria.

La scorsa domenica il DIARIO ha parlato di “diari” e lo farà anche oggi.

Per affrontare tutto il resto ci sarà tempo in settimana, non mancherà il tempo, purtroppo, in questa lunga corsa.

Domani si riparte.

Oggi cerco riparo nei libri.

Chi mi conosce sa che la mia passione sono i libri: antichi, unici, d’arte, strani, libri che raccontano storie e libri che hanno una storia da raccontare. Una passione di cui ho fatto quasi un secondo “mestiere”.

E con i libri e grazie a loro posso viaggiare anche ai tempi della quarantena e delle zone rosse. Viaggi che racconto in un blog “www.leportedeilibri.com” da due anni circa con l’aiuto di un prezioso collaboratore.

Il libro che apro virtualmente oggi ha proprio a che vedere con il mio diario e le similitudini sono tante. A suggerirmi il collegamento è stato però uno di voi. Tra i tanti, tantissimi commenti, una persona cara mi ha fatto notare qualche giorno fa un precedente interessante. Se oggi scrivo un diario del corona qualcuno molto più importante di me (ed un vero romanziere) scrisse a suo tempo un diario di un’epidemia.

<<Ai primi di settembre del 1664 cominciò a correre voce a Londra e anch’io ne intesi parlare nel mio quartiere, che in Olanda c’era di nuovo la peste…>>

Così inizia il” Journal of the Plague Year”, il Diario dell’Anno della Peste, scritto nel 1721 da Daniel Defoe, giornalista e scrittore inglese, autore di “Robinson Crusoe” (di cui possiedo una delle prime copie stampate), e “Moll Flanders”.

Si tratta di un diario immaginario. L’io narrante è un sellaio, non meglio identificato, che allo scoppiare dell’epidemia decide di rimanere in città, nonostante il pericolo, per continuare a curare i suoi affari. Fatalista e profondamente cristiano, si affida alla divina provvidenza, convinto, come molti all’epoca e forse anche lo stesso Defoe, che la causa dell’epidemia fosse dovuta ad una punizione divina per il cattivo comportamento degli uomini.

Accanto al diario personale, più intimo, largo spazio è dato alla descrizione e all’analisi minuziosa e lucida degli avvenimenti e dei comportamenti delle autorità da una parte, non sempre preparate ed efficienti (analogie con i tempo moderni?), e della popolazione dall’altra, sofferente e terrorizzata.

Alle vicende si aggiungono numerose testimonianze e documenti dell’epoca autentici, come le varie ordinanze emesse dalle autorità per cercare di contenere il contagio, le statistiche, il “Bills of Mortality” che riportava in dettaglio gli elenchi dei deceduti e la “Loimologia,” un accurato resoconto dei fatti redatto nel 1672 dal dottor Nathaniel Hodges, uno dei pochi medici che non abbandonarono la città, il quale si prodigò per gli ammalati soprattutto i più poveri con grande dedizione.

Nella figura di Nathaniel Hodges rivedo oggi non solo i colleghi che tengono la prima linea, ma quelle migliaia di medici volontari che ieri hanno risposto al bando della Protezione Civile.

Allora caro Defoe è un piacere, nel mio piccolo e senza pretesa alcuna, affiancare il mio modesto diario al tuo.

22 di Marzo … Di doman non c’è certezza …

21 Marzo a.d.c. (Anno Del Corona)

GIOCHI DI RUOLO

Una settimana difficile, pesante.

In questa settimana abbiamo vissuto insieme attimi di speranza, preoccupazioni, ansie e momenti di positività.

E lungo il cammino siamo cresciuti, molti si sono uniti a noi. Ci siamo confrontati, salutati, abbracciati virtualmente.

Ora è d’obbligo prendere fiato, tutti insieme con una pagina del diario semi-seria.

Perché anche nei momenti più drammatici bisogna ricordare, come diceva qualcuno

, che la vita alla fine è troppo breve per essere presa sul serio.


Ecco dunque per voi un “bestiario” del medico ai tempi del coronavirus, una sorta di zoo virtuale nel quale potremo ammirare alcuni esemplari unici di medico che si possono incontrare in queste settimane nei reparti COVID:


1. RAMBO: E’ visibile a metri di distanza. Il suo camice trabocca “armi” da tutte le tasche. Rambo è pronto alla guerra in qualsiasi momento. Penna già pronta all’uso, fonendoscopio posato su una singola spalla per estrazione più rapida, Timbro oliato per colpire più velocemente sul referto. Cuffia di protezione di traverso (simile ad un basco dei famosi Berretti Verdi). Bisturi e filo di sutura al cinturone. Zaino con maschere e tubi. Lato positivo: Il medico Rambo è sempre pronto in prima linea e può lavorare anche 24 ore di seguito; Lato negativo: soffre di stress Port traumatico cronico. Si sveglia in piena notte e intuba i pupazzi del figlio per passare il tempo.


2. ROBOCOP: Lo si riconosce dal numero di Device elettronici che porta con se: smartphone con auricolari bluetooth, tablet e smartwatch. Vive tutto sincronizzato. Gira con batterie aggiuntive come fossero razioni alimentari. Quando arriva un messaggio suona come le campane a festa del paesello la domenica. E’ in grado di gestire contemporaneamente una consulenza telefonica, la scrittura di una relazione sul tablet e la registrazione di un appuntamento sullo smartwatch. Lato positivo: Medico Multitasking. Lato negativo: smarrito quando si scaricano le batterie. (Ndr per chi mi conosce bene rientro in questa categoria)


3. JAMES BOND: E’ impeccabile. Scarpe lucide, polsini, cravatta, non un capello fuori posto. Camice appena stirato. Fonendoscopio in tinta con orologio. Penne disposte nel taschino secondo gradazione di colore. Pronto a cadere sul campo di battaglia, ma sempre con stile. Lato positivo: Non si scompone mai. Lato negativo: Per lui la vestizione in area COVID è una tortura fisica e psicologica che lascerà cicatrici profonde e perdita di autostima


4. IL MANIACALE: vive in tensione continua. Il COVID non è il suo mestiere dunque deve avere sotto controllo tutto. Gira armato di check-list per il reparto per non correre il rischio di dimenticare qualcosa. Verifica 3 volte tutto quello che fa poi chiede ad un collega di riverificare da capo. Lato positivo: non gli sfugge quasi niente. Lato negativo: 3 ore di lavoro per far quello che altri fanno in una (ma la fa bene).


5. LO SCIENZIATO: Dall’inizio dell’emergenza ha fatto dell’aggiornamento continuo un’arte sopraffina. Vive costantemente collegato con chat da tutta Italia in cerca dell’ultima cura sperimentale. Legge newsletter ogni ora e visita la pagina internet dell’OMS ogni 10 minuti. Se è uscito un articolo nel mondo nell’ultima ora lui lo sa già, anzi lo sapeva già prima della pubblicazione. Lato positivo: Tiene aggiornato tutto il gruppo. Lato negativo: le troppe informazioni lo mandano spesso in “corto-circuito”


6. IL CROCEROSSINO: E’ quello che sente di dover salvare il mondo, da solo. Corre in soccorso di tutti, si offre al posto di tutti. Alza la mano per offrirsi volontario ancora prima che abbiano posto la domanda e prima di sapere per cosa si sta offrendo volontario. Sente di avere una missione. Lato positivo: è un supporto per tutti. Lato negativo: rischio burnout dietro all’angolo.


Ora, però, torno serio, e lo devo ad alcuni VERI "esemplari di colleghi:


7. Il medico DEA: sono in prima linea dalla prima ora. Si sostengono a vicenda. Li potete riconoscere per i segni delle maschere portate per 12 ore e più, segni che permarranno a lungo. Non mollano. Non possiamo andare a stringergli la mano ma lo facciamo virtualmente ogni giorno. Stanno affrontando l’impossibile e guardandoli si capisce che alla fine essere medico (come essere infermiere) è veramente una missione


8. Medici RIA: Li riconosci perché hanno rinchiuso i sorrisi in un cassetto, al sicuro sino a quando sarà finito tutto. Vedono il lato peggiore di questa crisi. Supportano tutti i colleghi delle aree COVID. Gestiscono il tutto con professionalità che fa loro onore. Non mollano.


9. Medici Malattie Infettive: Hanno preso dall’inizio sulle loro poche spalle tutto il carico scientifico ed emotivo di questa crisi. Non hanno riposi, recuperi, ferie, sonno. Vivono in costante stato di allerta e coordinano il trattamento di un numero di pazienti 6-7 volte superiore al normale. Ringraziarli non sarà mai sufficiente.


10. Tutti i colleghi coinvolti nella gestione COVID: Medici di tutte le specialità che all’improvviso studiano, imparano, si applicano per la gestione delle turnazioni nei reparti COVID. Si torna studenti in un misto di stanchezza, ansia ma anche determinazione e solidarietà. Il chirurgo lavora al fianco del pneumologo, il neurologo a fianco del cardiologo. Saltate le barriere siamo tutti un’unica grande famiglia.


21 di Marzo … il mondo è bello perché è vario …

20 Marzo a.d.c. (Anno Del Corona)

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA CORSA

Ci sono vette e ci sono abissi.

Ci sono alti e bassi.

Con il passare dei giorni, con l’accumulo di stanchezza fisica e psicologica cominciano a intravedersi i primi meccanismi di difesa.

Una giusta premessa: osservo con gli occhi dell’uomo comune. Non sono esperto in materia, gli esami di psichiatria troppo lontani nel tempo.

Osservo.

A “consumare” la vitalità di molti non è tanto la fatica fisica, le responsabilità, le nuove sfide. Anche quello. Ma non solo.

Credo che ciò che rende arduo il compito è la totale assenza di previsioni.

Rendiamo chiaro il concetto con un esempio: se devo correre i 100metri so che posso permettermi una partenza con scatto bruciante e che posso dare tutto quello che ho da dare in pochissimo tempo. Se al contrario partecipo ad una maratona dovrò dosare sapientemente le energie, avanzare con regolarità evitare scatti.

Ora noi negli ospedali (da circa 2 settimane in Piemonte), abbiamo cominciato a correre. Solo che non sappiamo la durata e la lunghezza del percorso. Si accelera, si frena, si prende fiato, si accelera di nuovo.

Impossibile trovare un ritmo regolare, dividere i carichi di lavoro se non sai di ora in ora come variano quei carichi.

Si corre bendati, si inciampa, si chiede al vicino di corsa se vede il traguardo, poi insieme si alzano le spalle << forse sarà dopo la prossima curva>>.

E intanto di curve ne abbiamo già fatte un po’ ed è chiaro a tutti noi che il traguardo, di certo, non è dietro alla prossima.

Così ognuno cerca di impostare la corsa con un proprio ritmo.

Ed ognuno reagisce in modo diverso alla mancata vista della linea di traguardo.

C’è chi vive di adrenalina e ad ogni curva accelera sempre più (ma quanto reggerà se la corsa dovesse essere lunga? E sarà lunga!)

C’è chi cambia continuamente passo in un alternarsi di fase depressiva e fase “energica”.

C’è chi si arrabbia, chi scrive sui social con toni accessi, battaglieri per caricarsi e trovare la forza di un nuovo sprint.

C’è chi cerca di raccontare, come in una cronaca sportiva, la corsa su un diario (e intanto corre, immaginate la scrittura tremolante sul taccuino).

Osservando e guardando gli altri vedo anche me stesso come attraverso una lente sporca e deformata.

Oggi rallento, giornata giù. Un affanno solo psicologico, niente febbre, solo un’altra curva a vuoto.

Ma non corriamo da soli, è una staffetta.

O si vince insieme o si perde insieme.

E intanto si corre, senza una meta precisa, un po’ scomposti ma decisi.


20 di Marzo … un’altra curva laggiù in fondo …

19 Marzo (a.d.c. – Anno Del Corona)

PADRI E FIGLI

Abbiamo padri, siamo padri.

Il 19 Marzo del 2020 è una festa di separazione.

Figli separati dai padri.

Padri lontani dai figli.

Padri anziani che vedono il figlio in prima linea negli ospedali, provando un misto di orgoglio e paura.

Padri che da dentro vedono i loro figli fuori.

Questi padri (e sia chiaro vale a maggior ragione per le madri ma oggi è il 19 marzo!) vivono la paura di portare a casa “qualcosa”.

Alcuni di quelli di noi in primissima linea hanno deciso di isolarsi (penso all’amico Luca Grillenzoni a Biella e tanti, tanti altri) e vivono sul lavoro. Altri inventano mille protezioni e rituali per tenere i bimbi a casa il più sicuri possibile.

E ci sono i padri e i figli in quarantena.

Perché in questa strana e surreale festa del papà il regalo che faranno ai loro figli sarà probabilmente un abbraccio in meno, un bacio in meno. Con il terrore nel cuore che i più piccoli non capiscano.

Ecco perché scrivo (anche e non solo) questo diario.

Perché un domani i nostri figli, quelli non troppo piccoli per non sentire la nostra assenza ma non troppo grandi per poterne comprendere i motivi, sappiano cosa successe nel 2020.

Sappiano perché hanno visto poco o non visto i loro genitori, perché sembravamo “freddi”, perché non riuscivamo a lasciare in ospedale lo stress accumulato ma inevitabilmente lo portavamo a casa.

Stamane mi arriva un messaggio vocale su whatsapp, è del mio “piccolino” di 4 anni (aiutato dalla sorella più grande). Sono pochi secondi <<adesso tu sei “suppemen”>>.

Quei 3 secondi di registrazione sono il regalo più bello mai ricevuto per una festa del papà (oggi devo averlo riascoltato almeno 20 volte).

Ora però mi dovete scusare, vado a riporre il mantello perché purtroppo le disposizioni interne non mi permettono di indossarlo sotto il camice.

19 Marzo … Auguri papà….

18 Marzo (a.d.c. - anno del corona)

GUERRA E PACE

C’è un sentimento comune a molti operatori.

Un fremito lungo la schiena quando ci si sveste alla fine di turni fisicamente e psicologicamente pesanti.

E’ la sensazione di vivere in due mondi paralleli. Quello dentro e quello fuori.

Il mondo “dentro” è il mondo in guerra.

Ci si arma, ci si veste, si scende in trincea. Si lavora mentre si studia. TI lavi, ti sporchi, ti lavi, ti sporchi… una giostra continua dalla quale non puoi scendere.

Le protezioni contate, gli strumenti contati, i medici e infermieri contati.

I pazienti che aumentano, arrivano regolari, come onde infrante sulla battigia.

Riunioni improvvise per far la conta di chi c’è, di cosa oggi è cambiato.

L’ospedale pare una struttura gelatinosa. I reparti cambiano aspetto e vengono spostati di ora in ora a seconda dell’evolversi della crisi. Tutto e mobile, tutto scorre, panta rei.

Non esistono piu’ punti fissi o fermi. Il chirurgo affianca l’internista nel giro, impara il suo lavoro rapidamente, con la forza che solo l’adrenalina in questi giorni sa dare.

Poi esiste il mondo “fuori” quello della “Pace”.

Esci dal cancello dell’ospedale alla sera e tutto è (quasi) come è stato sempre. Gente a passeggio con o senza cane. Mamme coi passeggini affiancate alla panchina. Podisti con i cardiofrequenzimetri di ultima generazione. Pensionati al parco in 3 o 4 a scambiarsi ricordi di gioventu’. Gente allegra in coda al supermercato senza mascherine, attaccati come sul metro di Milano all’ora di punta (tanto, come sussurrava ieri sera una signora con le borse cariche di beni essenziali sono tutte storie dei telegiornali).

E’ in questo momento che, finito l’effetto dell’adrenalina, nel cuore dell’operatore sanitario subentra lo sconforto. Quando si è in guerra lo si è tutti. Tutti hanno la percezione che la vita è cambiata. Qui no.

Mentre parte importante della popolazione ha compreso la grave crisi e collabora, ed una parte purtroppo (quella produttiva e dei lavoratori autonomi) soffre con noi, una parte prosegue con apparente noncuranza a condurre un’esistenza “normale”.

Esistenza che per settimane o mesi verrà negata a chi vive (perché piu’ che lavoro ormai è vita) dentro l’ospedale.

Sappiamo che nessuno di noi uscirà senza qualche cicatrice fisica o psicologica da questa crisi. Qualcuno cambierà vita, qualcuno vedrà la vita con occhi diversi, qualcuno capirà che la vita è un soffio d’aria sulla fiammella di una candela, qualcuno si ammalerà, qualcuno pregherà e qualcuno smetterà di farlo.

Ancora 3 ore di guardia, qui al fronte. Anche oggi ho potuto vedere con i miei occhi la bravura e la passione di tanti colleghi, medici, infermieri, tecnici. Nessuno si ferma, dentro. Fatelo fuori, fermatevi.

18 di Marzo … sono solo storie diceva la signora...

17 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

La BUFALA è buona… ma meglio sulla pizza!

Da giorni siamo sotto bombardamento.

E non era possibile pensare potesse andare diversamente.

Una pandemia + l’isolamento in casa collegati ai social… una combinazione esplosiva.

Il paradiso della “bufala”, delle “fake news”.

Tutti alla ricerca dello scoop, del farmaco miracoloso, delle ricetta per “fregare il virus”.

Così in migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia in tutto il mondo abbiamo condiviso le notizie più strane nella sincera convinzione di aiutare l’umanità a sopravvivere al virus.

In questi giorni mi sono imbattuto in storie degne di stampa.

Molto bella ad esempio la “bufala” che spiega come diagnosticare la fibrosi polmonare trattenendo il fiato per 10 secondi (pensate quante TAC possiamo risparmiare!) o quella che spiega che bevendo liquidi molto caldi si inattiva il virus (al limite peggiorare l’esofagite).

Oppure quella che vende un fantomatico farmaco russo che previene l’infezione (qui il confine tra bufala e truffa è sottile).

Ci sono anche bufale confezionate molto bene.

Vi assicuro che anche noi “esperti” abbiamo avuto momenti di incertezza ad esempio sulla notizia, pubblicata anche da La Repubblica che riguardava la controindicazione ad un farmaco anti-infiammatorio in pazienti COVID. Le fonti parevano chiare e certe e solo un lavoro di equipe e di ricerca sulla letteratura scientifica ha permesso di svelare la verità, cioè che si trattava di notizia inventata pur prendendo spunto da alcuni dubbi reali.

Perché questo dobbiamo ammetterlo: abbiamo (intendo la comunità scientifica) tanti dubbi e poche certezze.

In condizioni normali studiare una sindrome, capirne l’evoluzione e programmare la strategia terapeutica richiede anni di lavoro.

Per il “corona” si stanno facendo miracoli, il lavoro di anni in poche settimane.

Centri di ricerca in tutto il mondo corrono una sorta di gara per sperimentare un vaccino (ma questo ci servirà per il prossimo anno) o per trovare combinazioni di anti-virali.

I farmaci che si stanno provando (dalla clorochina agli antivirali di vecchia e nuova generazione agli anticorpi monoclonali) sono farmaci che vengono usati in base ad esperienze di 1-2mesi, imparando dai primi dati cinesi. Alcuni utilizzati con la formula dell'uso compassionevole (nel dubbio se non ho niente da perdere lo provo), altri off-label (farmaci cioè non ancora autorizzati per tale scopo). Si fanno progressi rapidi ma siamo lontani dalla cura miracolosa.

Una preghiera allora: NON condividiamo messaggi non verificati e da siti NON istituzionali. Aumentiamo solo il rumore di fondo.

Lasciamo fare agli esperti (e già è dura per loro).

Se abbiamo dubbi chiediamo al medico di fiducia.

Oppure se vi imbattete in un post o messaggio di dubbia provenienza inerente il coronavirus scrivetemi su Messenger. Risponderò a tutti, magari non immediatamente ma risponderò. E dove non arriverò con la conoscenza diretta arriverò con l’aiuto di un gruppo di colleghi che è ormai una seconda famiglia.

Un’informazione consapevole e corretta è la strada per attraversare, insieme, questa lunga crisi.


Giorno 17 di Marzo, apriamo il libretto d'istruzioni…

16 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

L’ABITO NON FA IL MONACO (ma lo protegge)

Oggi vi parlo di vestiti. Non l’ultima moda.

Oggi vi spiego perché in queste settimane i medici e gli infermieri saranno, purtroppo, meno disponibili per parlare.

Non sarà per cattiveria e non sarà per mancanza di sensibilità.

E’ che la nostra vita è cambiata sin nei piccoli gesti quotidiani.

Avete presente cosa voglia dire lavorare in un reparto “COVID”? No?

Ora vi racconto una giornata tipo.

Si esce di casa presto, prima del solito.

SI arriva in reparto.

Si tolgono i vestiti di casa riponendoli in uno spazio sicuro, pulito.

SI tolgono orologi, bracciali, anelli, collane. SI imbusta il telefono in un sacchetto trasparente o si avvolge nel domopak.

SI indossa camice monouso ciabatte.

Poi arriva il momento della seconda vestizione, e questa credetemi è interessante:

1- Lavaggio mani

2- Primo paio guanti

3- Camice

4- Gambali/sovrascarpe

5- Maschera chirurgica o ffp2/ffp3 a seconda delle evenienze

6- occhiali protezioni + cuffia

7- Scudo facciale

8- Secondo paio guanti (sovrapposto al primo)

Una volta bardati così non si può più uscire da zona “SPORCA”.

Se si esce immaginate la stessa procedura all’incontrario.

Qualunque gesto va pensato… dove mi appoggio, dove mi siedo. Nulla è scontato. Le penne “pulite” e quelle “sporche”.

I percorsi disegnati a terra come se fosse un campo minato.

Ed una piccola nota personale: dopo 25 anni ho deciso di eliminare la barba perché un viso glabro aderisce meglio alla maschera. Un sacrificio necessario sino a fine emergenza.

Ecco perché rispondiamo poco al telefono o perché sembriamo spariti.

E’ per proteggere noi e voi.

Giorno 16 di Marzo, pronti per la sfilata…

15 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

CARO DIARIO TI SCRIVO

Domenica, calma apparente, a casa.

Quando ho iniziato questo diario il 3 di Marzo non potevo immaginare cosa sarebbe diventato.

Il concetto di diario rimanda a ricordi di gioventù.

La mia generazione dei trenta-quarantenni ha vissuto nell’età dell’adolescenza l’era del “Caro Diario”.

Si tornava a casa da scuola, si apriva il diario e si riversavano avvenimenti, emozioni. Era un modo per imparare a scrivere, a raccontare.

Oggi la generazione “touch” o “social” non ha più un diario, ne ha di virtuali nei quali la comunicazione è spesso rapida, frammentata, telegrafica. Non per niente il social vincente tra i giovani è Instagram: una foto, poche righe.

Riaprire ora a quasi 45 anni un diario è stato il mio modo di mettere ordine nella confusione delle prime ore di emergenza.

Poi sono passati i giorni.

Le persone che condividono, commentano aumentano di giorni in giorno.

Può sembrare banale e scontato ma per chi come noi ormai vive blindato tra casa e ospedale sentire la vicinanza di chi “è fuori” vuol dire tanto.

Così è stato stupendo confrontarsi, salutare e scriversi con colleghi da tutta Italia.

Anche questo rimanda a ricordi di gioventù, agli anni del liceo nei quali, per imparare a scrivere in inglese, era d’uso cercare un “pen pal” (gli amici di penna)in Inghilterra. Si scrivevano lettere e tra scriverle, imbustare inviarle e ricevere risposte passavano secoli (e quanta emozione nel momento di aprire quella busta che arrivava da lontano carica di francobolli).

Oggi attraverso il diario conosco e scrivo a “pen pals” da tutta Italia.

Dal direttore dell’U.O Cardiologia del Sacco di Milano che mi ha onorato della sua amicizia virtuale dopo essersi imbattuto nel mio diario all’anonimo commercialista romano, alla collega gastroenterologa di Pisa che mi ringraziava per aver condiviso queste emozioni.

E sono io a ringraziare lei. Perché in tutta Italia stiamo diventando una squadra.

Mai come oggi la categoria è unità.

Oggi è domenica, si respira ben sapendo che in questo momento tanti colleghi sono ancora in prima linea.

Domani si riparte.

Giorno 15 di Marzo, si tira il fiato…

14 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

SOLDATI o MISSIONARI?

E’ difficile in questa silenziosa mattina di sabato di metà marzo riuscire a trovare una logica, un filo conduttore.

E’ stata una settimana difficile, una “Caporetto” dei sistemi sanitari nazionali (non solo quello italiano).

E come in tutte le disfatte militari ciò che conta sono i caduti sul campo, quando non hai più soldati chi resta in trincea?

Perché soldati siamo. Ce lo ripetono da giorni. In tutta Italia, al Nord soprattutto.

DI fronte alle preoccupazioni, ai timori, al carico psicologico e fisico da sopportare, la risposta è una: siete soldati.

Dunque medici e infermieri all’occorrenza e secondo il vento che tira sono oggi missionari (quante volte ci siamo sentiti dire negli 11 anni di blocco del contratto - cosa peraltro mai vista per nessuna altra categoria - che il nostro non era un mestiere ma una missione) domani soldati.

Temo cosa potrei sentirmi dire dopodomani.

Ma NON voglio sentire la parola EROI.

NO, non siamo eroi.

Siamo padri, madri, fratelli, sorelle, amici.

Abbiamo scelto nella vita di prenderci cura dell’altro e ne abbiamo fatto un MESTIERE. Un mestiere che va vissuto con etica, rigore, scienza e coscienza.

Per anni hanno tagliato posti letto oltre il lecito, oltre il buon senso in nome di calcoli fatti a tavolino da chi quaggiù, in trincea, non è mai sceso.

Per anni abbiamo ridotto il personale e non abbiamo formato abbastanza specialisti perché chi ha avuto in mano il timone della sanità sedeva dietro eleganti scrivanie e non si cambiava con noi alla mattina.

Ed ora, dopo anni di tagli sconsiderati, ora siamo soldati, perché questo serve per uscire da questa crisi senza precedenti.

Questo devo dire ai colleghi che mi chiamano sfiancati, spossati.

Nel Nord Italia non si contano più i medici e infermieri contagiati. In ospedale e fuori dall’ospedale.

Si lotta per potergli far fare un tampone, si lotta perché non vengano mandati a lavorare in assenza di sicurezza per loro e per i pazienti, si lotta per questi “benedetti” DPI. Ci sono realtà nel “civilissimo NORD” (e si apprezzi l’ironia) nelle quali sta mancando tutto.

E mancano uomini e donne. Perché chi sostituisce chi progressivamente si ammala?

Cerchiamo di aiutarci. Stamane una collega, una grande professionista come Ferraris Silvia si è offerta di aiutare gratuitamente i colleghi affetti da quella che diventerà per alcuni una vera e propria forma di “stress post-traumatico”. E posso capire che chi ancora passeggia e gioca nei parchi non veda con i nostri occhi.

Intanto le notizie dalla Cina sono promettenti. La loro crisi comincia a risolversi ed il loro aiuto, materiale, in arrivo. Un gemellaggio Italia-Cina essenziale in questo momento. E’ il loro “Piano Marshall”, la storia ripete se stessa, cambiano solo gli attori.

Forza colleghi (medici, infermieri, OSS) consoliamoci, settimana prossima sarà, inevitabilmente, più dura di questa.

E quando sarà finita molti di noi avranno stretto legami forti, indissolubili indipendentemente da ruoli e specializzazioni.

Molti di noi impareranno ad apprezzare le piccole cose, come il momento del caffè tutti insieme per iniziare la giornata, quel caffè, da lunedì sino a data da destinarsi, lo prenderemo ad 1 metro di distanza, con circospezione.

Giorno 14 di Marzo, tavola da surf pronta, arriva l’onda…

13 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

A PROPOSITO DEL FATTO CHE NON TUTTO VA BENE

In questi giorni ho parlato molto di quanto di buono la gente dentro e fuori l’ospedale ha fatto e sta facendo. Gesti di grande generosità, gesti di vicinanza. Donazioni. Era il momento di rimboccarsi le maniche e lavorare per costruire e dare anche un messaggio di speranza a chi non vive ora per ora l’evolversi delle cose come noi “dentro”. Un messaggio di fiducia: ci siamo, stiamo lavorando, non molliamo.

E’ però giunto anche il momento di guardarsi in faccia in questo venerdì 13 così particolare. E NO, NON tutto è andato bene.

E perchè serva di lezione dobbiamo dircelo con franchezza e lucidità.

NON abbiamo capito in tempo che NON era un’influenza normale.

NON abbiamo saputo (o potuto) preparare in tempo uomini, strumenti, ospedali.

NON abbiamo saputo (o potuto) proteggere chi sarebbe andato in prima linea.

Il mio pensiero è rivolto in primis ai medici di medicina generale. I tanti colleghi che avrebbero dovuto contenere le infezioni sul territorio. E che hanno provato a farlo NONOSTANTE la carenza di DPI (Dispositivi di Protezione) a loro disposizione. Quei colleghi ora si ammalano. Ad uno di loro cui sono particolarmente vicino per stima e collaborazione da anni va il mio pensiero particolare. Un medico “di famiglia” che come tanti altri da Vercelli alla Valsesia non si è risparmiato mettendo il senso etico di fronte anche alla propria salute.

Un altro pensiero è rivolto a chi si ammala, di noi operatori sanitari, al proprio domicilio. Sui percorsi che identifichino le responsabilità nella gestione di tali casi manca chiarezza ed i controlli con tamponi latitano per problemi organizzativi o carenze DPI del personale ADI.

Noi operatori sanitari siamo in prima linea, rinunciamo a tutto (ferie, recuperi, riposi, leggi sull’orario di lavoro “congelate” per noi sino a data da destinarsi) ma non possiamo e non vogliamo rinunciare alle protezioni e ad uno “scudo” nel momento della malattia. ANAAO (Associazione Nazionale Dirigenti Medici e Sanitari Ospedalieri) che rappresento a livello locale è stata propositiva sin dalla prima ora dell’emergenza ed è in prima linea per contribuire a trovare e procurare materiali grazie alla generosità di benefattori come Carlo Olmo e tanti altri. Ma con la stessa forza ANAAO chiede con urgenza risposte.

A medici e infermieri si sono chiesti sacrifici, carichi di lavoro imponenti, rischi biologici con protezioni contate. Ora cominciano ad ammalarsi. È dovere nostro, di tutti, aiutarli ed essere loro vicini. Perché devono guarire e poter tornare a prendersi cura di voi, di tutti noi, in sicurezza.

Venerdì 13 di Marzo, proteggiamoci per proteggervi

12 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

COME STA?

Negli ultimi anni ho implementato molto il supporto a distanza dei pazienti che seguo ed ho in cura: whatsapp, email, Skype o FaceTime se serve. Ho sempre ritenuto importante sentirsi vicini anche da lontano, sapere che se hai un dubbio puoi avere una risposta, in tempi brevi. Spesso il lato peggiore della malattia è la paura di ciò che non si conosce o la paura di essere soli.

Così è capitato di chiamare pazienti o scrivere e chiedere << come sta? Tutto bene?>>

In questi giorni la stessa domanda, via whatsapp, email, a voce.

<< Come sta? Tutto bene? Serve qualcosa?>>

Ma non sono io a fare la domanda.

Sono loro a farla a me.

Si invertono i ruoli, come di fronte ad uno specchio.

Si preoccupano per noi, si offrono di portare cibo e conforto.

Sanno che dovranno avere pazienza, tutto ciò che non è urgente viene sospeso. Visite, interventi. Tutte le forze vengono indirizzate verso lui, il “COVID”.

E non possiamo non pensare che non siamo gli unici a fare sacrifici. Per aiutarci ad aiutarvi fuori stanno chiudendo negozi, attività commerciali, bar, ristoranti, parrucchieri. Sono tutti liberi professionisti che pagheranno un duro prezzo.

Rispettare le regole e l’isolamento vuol dire anche rispettare il sacrificio di molti.

Intanto il telefono si incarta nel domopak, i vestiti si imbustano, gli orologi si abbandonano. Viviamo in reparto e negli ambulatori come se fossimo in una sala operatoria.

Un ultimo pensiero a due “guerrieri” che oggi combattono la loro battaglia. A questi due amici e professionisti dono oggi il mio cuore.

Giorno 12 di Marzo, avanti tutta.

11 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

EPPUR SI MUOVE

La società civile, i privati, le fondazioni, le associazioni. Tutto si muove.

E’ un fiorire di donazioni, alcune molto importanti, altre piccole ma fatte con cuore grande.

Ieri ho avuto il grande piacere di dare un piccolo, piccolissimo contributo a ciò che di bello e importante sta organizzando Luciana Littizzetto a Torino. Ci siamo sentiti ed ho trovato una persona dalla grande sensibilità e con grande spirito pratico. Si sta facendo promotrice di un’importante raccolta di soldi a Torino e abbiamo parlato del modello applicato qui da noi a Vercelli di recente.

Stamane ricevo la telefonata di una pizzeria d’asporto (Areafood - Corso de Rege), in un grande gesto di generosità verso il personale sanitario impegnato nella gestione COVID hanno offerto una pizza gratuita agli operatori sanitari che si presentino con badge dell’ospedale nella fascia oraria 12.00-13.30. Ovviamente a noi operatori l’obbligo di non abusare di tale generosità offerta da chi in questo periodo subirà verosimilmente un calo importante dei guadagni, cosa che rende il gesto ancora più ammirevole.

Un altra buona notizia attendo in giornata, un’offerta di aiuto che potrebbe arrivare da molto lontano segno di vicinanza tra popoli. Segno che non siamo bianchi, gialli o neri... siamo essere umani. Ma questa è notizia che meriterà altra storia e verrà raccontata al momento giusto.

Intanto i malati aumentano, i letti vengono fagocitati ad altre strutture e reparti che vengono progressivamente convertiti a letti COVID.

Ora il problema è il personale. Bisognerà tentare di assumere specializzandi e tenere pronti eventuali volontari tra i pensionati, medici e infermieri. Man mano che le sindromi febbrili colpiranno il personale, ed è impossibile pensare che non accada, tale personale dovrà stare a casa.

Pronti via, giorno 11 di Marzo. Saluti dal fronte. State a casa, mascherina in luoghi affollati. Aiutateci ad aiutarvi.

10 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

I LAVORI PROCEDONO

Non si è mai stati tanti rapidi come ora. Acquisizione uomini, mezzi, strumenti. Ma i problemi sono tanti. Il materiale scarseggia anche sul mercato internazionale. Paghiamo anni di sottofinanziamento del SSN, di riduzione letti, personale, mancato o ritardato aggiornamento degli strumenti. Ora dobbiamo in 2-3 settimane recuperare 15 anni. E’ ovvio che sia dura.

Gli operatori sanitari in trincea daranno, e lo stanno facendo, l’anima.

A chi è fuori chiediamo di capire.

Stamane ho assistito ad un diverbio al pre-triage. Una persona in coda che spazientita affermava che era indecente che fosse in fila da 20 minuti. A quella persona dico “non hai capito”.

Non hai capito che stiamo tenendo aperto a caro prezzo, non hai capito che stiamo riconvertendo mezzo ospedale per trattare le insufficienze respiratorie, non hai capito che stiamo dirottando personale sui pazienti COVID e lo stiamo istruendo, non hai capito che per noi è una battaglia. A te che sei in coda con la maschera FPP2 (con valvolina) che a te non serve a niente dico che quella stessa maschera non la troviamo più sul mercato per gli operatori cui invece serve.

Ma se dimentichiamo per un attimo “l’amico” spazientito ci possiamo accorgere che in queste ore c’è invece una parte vitale della società che si sta stringendo attorno a noi in un abbraccio virtuale. L’amico Carlo Olmo ha pronta una donazione cospicua ed importante, una boccata d’ossigeno fondamentale, un contributo che farà la differenza in un momento difficile, una donazione che senza lungaggini burocratiche porterà ad un risultato concreto nel tempo più breve possibile. La società è pronta a rispondere.

Con i colleghi, da tutta Italia, è un fiorire di chat, whatsapp. Si condividono scoperte, esperienze, articoli scientifici. Professori, studenti, professionisti seduti ad un tavolo virtuale senza formalismi e senza divisioni per ruoli o importanza.

Oggi ho incontrato un gruppo di infermieri, giovani, in attesa di essere assunti con procedura di urgenza. Ho dato loro il benvenuto. Gli ho detto che scriveranno con noi una pagina di storia della nostra sanità.

Al lavoro.

4 Marzo (a.d.c. - Anno Del Corona)

PER UN FILO D'ACQUA DI TRAVERSO

Giornata di incontri, riunioni. Si vive l’emergenza da punti di vista diversi ognuno con il proprio bagaglio di esperienza, motivazione, conoscenza e perché no, stanchezza. Non ci sono avversari, ci sono solo problemi che cercano risposte e l’intento comune di trovarle, giorno per giorno, ora per ora.

E capita di incontrare colleghi che magari saluti distrattamente da anni, ed ora ci si ferma, si incrocia lo sguardo, ci si chiede <<stai bene?>> E non è una frase di circostanza. E capita che un collega li vicino, con un bicchiere in mano, ad un certo punto tossisca. Si ferma, si volta verso di noi, ci guarda e sussurra con la mano davanti alla bocca... << acqua di traverso >> e ridiamo tutti, alla faccia del coronavirus.

E il pensiero va ai colleghi urgentisti e rianimatori in quarantena che vorrebbero e avrebbero chiesto di rientrare (non sarà ovviamente possibile), per spirito di gruppo ammirevole , a lavorare al fianco dei colleghi rimasti e oberati di lavoro. Ed in quella volontà di prendersi per mano c’è tutta la solidarietà che ci consentirà di passare, insieme, questi momenti.

Ora a casa, un’oretta, prima di tornare in ospedale per la guardia notturna di 12 ore.